Un breve messaggio mi giunge da un’amica molto attiva nella protezione dell’ambiente – sagace fondatrice di Salix in mente, piccola associazione che difende alberi in ambito urbano - per chiedermi se avessi da suggerirle una guida del Delta del Po, visto che si stava aggirando in quei luoghi con lo stupore di chi ci si trova per la prima volta. Grazie a lei mi rimbalza subito alla mente un lavoro entusiasmante, ormai dimenticato, che per fortuiti eventi mi trovai ad affrontare appena approdata, vent’anni orsono, in terra veneta dopo aver assaggiato per qualche anno la vita metropolitana di Milano. Il Parco Regionale del Delta del Po, intenzionato a rilanciare il territorio e la sua conoscenza, mi coinvolse in un viaggio di scoperta tra quelli che prediligo: esplorare luoghi nuovi per capirne la storia i significati, le tradizioni e le trasformazioni.
Dovevo pubblicare una guida, Delta del Po. Parco Regionale Veneto, testo che avrebbe spaziato tra la storia antica, le trasformazioni del territorio, le realtà locali ed i nuclei storici fino ai percorsi in barca, in bicicletta, le tradizioni locali comprese la cucina, le sagre e le manifestazioni. Uscì nel 2000 con una componente fotografica importante di Alessandro Piva, per Octavo Edizioni di Firenze (oggi quasi introvabile se non in rete).
Un libro mi aiutò prima di tutti gli altri ad orientarmi, ancor di più della classica immancabile, corposa guida rossa del Touring Club degli anni Novanta, senza la quale al tempo sembrava di non potersi mettere in viaggio; un po’ come avveniva nell’Ottocento per i britannici in Italia quando non avevano con sé la celebre Baedeker. Memorabile il capitolo di Camera con vista, amato romanzo di Forster, in cui Miss Lavish rimprovera Lucy che si è affidata alla famosa guida rossa, che invece lei descrive come superficiale. La vera Italia, secondo Miss Lavish, si può comprendere con la sola osservazione personale. Ma non divaghiamo troppo, Ermanno Rea con il suo volume straordinario Il Po si racconta1 consente per uno straniero di queste terre, così uniche del paesaggio italiano, di essere coinvolti e condotti passo passo nei meandri della storia, proprio di quelle genti che vivevano lì prima della nascita del turismo.
Questo vasto territorio è un’indefinibile distesa di acqua e terra emersa dove il limite non è mai chiaro tra l’uno e l’altro elemento, un’alchimia di percezioni fa sentire il prorompere dell’energia naturale, della sua forza e bellezza invisibile, nei confronti di qualsivoglia abitante che sia uomo, animale o vegetale. Questo lungo viaggio che affrontai per chilometri, dal bosco originario della Mesola a Sud, nel comune di Goro, al confine con l’Emilia Romagna, fino alla punta più a Nord a Porto Caleri, prima della cittadina balneare di Rosolina, mi si presentò selvaggio e silenzioso: tra le sue centinaia di valli e lagune nelle formazioni più sinuose e fluttuanti linee, mai diritte, se non quando tracciate dall’uomo, mai uguali le une alle altre come un racconto di mutamenti geologici ancestrali.
Ermanno Rea mi condusse nelle trattorie tradizionali di ex pescatori, tra le saghe degli abitanti della laguna, nelle famose valli da pesca, le sacche apparentemente naturali, che arricchirono improvvisamente, dopo la guerra fino agli anni Ottanta, in una sola generazione, intere famiglie locali di allevatori di pesce dai nomi ricorrenti.
L’uomo che vive nel Delta del Po ha sempre tratto buona parte del suo sostentamento dalle risorse ittiche del fiume e della laguna. […] ma poi in tutte le case, anche nei ‘casoni’ dei più poveri, alla luce di candele o della lampada a petrolio, si dava l’assalto ad una saporita e fumante porzione di ‘bigoli neri’ conditi con le sardelle salate e si consumava quanto si era pescato nei giorni precedenti.
(Benedetto Marinelli, Usanze nel Delta Po alla fine dell’Ottocento, Ed. Il Gerione, Abano Terme 1972)
L’approdo nella punta più protesa verso Nord degli 800 chilometri quadrati di Parco, dove la laguna si congiunge dolcemente alla costa marina è tra i più edificanti, mentre ci si spoglia del pregiudizio che il mediterraneo sia lontano da qui, che sia altrove… La spiaggia si raggiunge da terra non prima di inebriarsi di effluvi balsamici di pini domestici e marittimi, tra piccoli sentieri e radure calpestando coltri di aghi caduti che rendono il cammino silenzioso e soffice. Scorgo qualche cespuglio di alloro, di corbezzolo pieno di frutti rossi, avvinghiato da cascate di madreselva, la lonicera selvatica (Lonicera etrusca Santi) dai profumati fiori porpora-rosa e bianchi. Qualche liana pende dalle alberature come in una piccola foresta vergine a dimensione di noi uomini occidentali, timorosi più che armati di coraggio e spirito di avventura, sentimenti ormai quasi perduti. La pineta lascia spazio a qualche radura e il terreno sabbioso si fa più evidente mentre si solleva su dune già solidificate che andranno a formare nuovi timidi boschetti di pinete giovani, saliscendi aridi contornati di Apocino veneto (Apocynum venetum L.) dai fiorellini teneri rosa in primavera, un tempo usato come pianta tessile, si alternano a bordure naturali di Cistus arbusti bassi tipici del bacino del mediterraneo, piante pioniere dai fiori stropicciati a maggio e giugno tra il bianco e il fuxia, a seconda delle specie. Ecco che compare il cespuglio mediterraneo per eccellenza, l’Elicriso (Helichrysum italicum L.) dalla foglia grigia lucente e aghiforme, a fiori giallo carico capaci di conturbare con il suo profumo di curry che ci porta subito verso sensazioni di selvatica empatia con la natura tutta. Come se volessimo farla nostra e non perderne più l’energia vitale, tanta la forza del suo talento officinale. E ancora specie pioniere capaci di trattenere la sabbia come “sparto pungente degli arenili” appunto, che nelle giornate ventose si staglia verso il mare con i suoi cespugli di capelli filiformi di colore verde argenteo e poi giallo a fine stagione: è l’Ammophila arenaria (L.) Link subsp. Australis (Mabille) M. Laínz.
Oltre a questo i ginepri comuni, preziosissimi per fare il famoso liquore, il gin, producono migliaia di bacche in settembre che vengono raccolte (con discrezione, siamo in un parco!) per insaporire qualche piatto di pesce o zuppe invernali, conferendo un sapore dolce ma molto aromatico. Il passaggio tra passerelle di legno sopra cespugli e tra alberi lasciati opportunamente sviluppare in modo naturale per studiarne lo sviluppo e le potenzialità, ci permette di assaggiare anche il carattere delle aree più interne, dove invece la laguna è ancora viva e ricca di vegetazione tipica come Limonium serotinum (in primavera si tinge di viola), l’Artemisia coerulescens e la stagionale Salicornia veneta, anche utilizzata in cucina come una specie di spinacio. Il mare lo ritroviamo anche nelle formazioni di finocchio marittimo, Crithmum maritimum, ricercato per farne sott’aceti in tutto il bacino del Mediterraneo.
Il valore di questa area costiera è che oltre alla lunga cortina di flora mediterranea a pineta, lecci e arbusti come filliree, corbezzoli, ginepri e alaterni, utile alla conservazione e stabilizzazione delle dune naturali, ormai dei lacerti in una costa adriatica svilita dall’edificato, permane una spiaggia completamente libera e non gestita da nessuno stabilimento balneare, se non sporadicamente dal personale del Parco per eliminare grandi residui di tronchi dopo le mareggiate. Questa sabbia bianca brillante e finissima, ricca di conchiglie, piccoli residui di legni venuti dal mare, tronchi bianchi lisciati dal tempo e corrosi dal sale, ci permette di apprezzare uno spazio originario il cui suono della natura, le cicale, i grilli, le ritmiche onde che si infrangono sulla battigia, sarebbe altresì difficilmente godibile nel litorale veneto, soprattutto d’estate.
Il giardino di Porto Caleri rappresenta uno dei pochi esempi italiani dedicati alle specie dell’areale mediterraneo che con un percorso articolato su una ventina di ettari ci fa scoprire i colori ed i profumi della vegetazione costiera in libertà proprio come dovrebbe essere.