Scriviamo queste riflessioni poche settimane dopo il vertice internazionale in occasione della Giornata mondiale della Terra. Un’occasione preziosa per capire quello che gli Stati e la collettività mondiale stanno facendo per la salvaguardia del pianeta e quanto lontani sono gli obiettivi che tale salvaguardia possono garantire. Un evento che ha visto il ritorno al “tavolo sul clima e l’ambiente” degli Stati Uniti dopo la pesante parentesi isolazionista della presidenza Trump. Una presenza ben accolta e che garantisce un maggior impatto positivo su qualsiasi strategia globale in direzione dell’ambiente e della “pacifica” convivenza che l’umanità deve tornare ad avere con il pianeta per il rispetto ad esso dovuto come casa comune e per impedire il tracollo stesso della civiltà umana, non oggi, non domani ma certamente in tempi storici e non planetari.
La salvaguardia del nostro habitat, del sistema terra nel suo insieme è fatta di molteplici interazioni, intrecci inestricabili e regole di azione e reazione che hanno reso la Terra quella che conosciamo e che conducono il pianeta stesso a reagire nei confronti di quello che lo sviluppo umano provoca soprattutto quando avviene in direzione contraria agli equilibri che lo sorreggono e garantiscono. La civiltà umana è cresciuta nei millenni a velocità compatibile con questi equilibri sino alla metà del diciannovesimo secolo quando la rivoluzione industriale, l’introduzione dei sistemi a motore ha impresso una spinta formidabile allo sviluppo ma ha anche introdotto in modo sempre più evidente una serie di input di modifica e distruzione di sistemi intatti o preservati da milioni di anni o sui quali la capacità di resilienza del pianeta è stata in grado di rimediare. Negli ultimi decenni questi input sono divenuti parossistici e la capacità invasiva dell’azione dell’uomo sta modificando realmente e in maniera crescente l’equilibrio climatico planetario innescando modifiche che nessuno è in grado di prevedere con chiarezza né in termini quantitativi sia in termini temporali.
I dati a disposizione degli scienziati indicano però in modo univoco che il punto di non ritorno, ovvero quello nel quale la reazione del sistema Terra potrebbe manifestarsi in modo tale da mettere in forse la sopravvivenza stessa del genere umano e della vita su di esso, potrebbe essere molto vicino. Le previsioni peggiori peraltro ritengono che forse potremmo averlo superato. Il verificarsi sempre più frequente di fenomeni atmosferici eccezionali dovuti ad una sorta di inversione termica indotta dall’azione umana indicano che il clima planetario sta cambiando rapidamente. Lo scioglimento del ghiaccio artico e delle sterminate praterie della tundra del centro dell’Asia rischiano di innescare un aumento del livello dei mari da un lato e nel secondo caso la liberazione sempre più frequente di metano dalle profondità rimaste intrappolate per millenni nel permafrost e questo può aumentare l’effetto serra già in atto. L’estendersi delle aree deserte e in desertificazione in molti continenti e il moltiplicarsi di incendi devastanti danno anche essi la misura delle mutazioni in atto.
L’interazione tra questi e molti altri elementi ha avviato una miscela “esplosiva” che le politiche di contenimento energetico e delle emissioni in atmosfera e tutte le migliori pratiche devono riuscire a rallentare per invertire la tendenza. I tempi sono serrati e ogni passo deve vedere l’intera umanità agire insieme secondo un minimo comune denominatore che investa i nodi più immediati e rischiosi.
Tra le questioni da affrontare per l’effetto negativo che possono produrre ne affrontiamo due in particolare: il primo è l’effetto della presenza di neve e vegetazione e i cambiamenti climatici indotti; il secondo è l’incremento dei rifiuti plastici in tutto il globo ma in particolare in aree esterne, mentre risulta stabile nelle aree antropizzate.
Il riscaldamento climatico incide sulla presenza dei ghiacci e della neve e su quella delle superfici vegetali ed è vero anche il contrario. È quanto emerge da uno studio coordinato dall’Istituto di scienze dell'atmosfera e del clima del Consiglio Nazionale delle Ricerche, che mostra il rapporto tra il global warming degli ultimi decenni e la variazione di copertura nevosa e vegetale nelle diverse aree dell’emisfero settentrionale del pianeta e indica che neve e vegetazione modulano il riscaldamento climatico.
Le nuove informazioni sono derivate dai nuovi dati resi disponibili dalle ultime campagne satellitari. Che hanno permesso di osservare i cambiamenti nella copertura di neve e vegetazione associati al climate change e come essi abbiano modificato la quantità di radiazione solare riflessa localmente dalle superfici continentali (cosiddetto effetto di retroazione locale su riscaldamento climatico). Tali risultati mostrano come i cambiamenti climatici degli ultimi decenni abbiano determinato larghe riduzioni della copertura nevosa ed estese espansioni della vegetazione capaci di amplificare (retroazione positiva al riscaldamento globale) o controbilanciare (retroazione negativa al riscaldamento globale) l’incremento delle temperature nelle diverse regioni dell’emisfero settentrionale.
Del team autore dello studio - pubblicato sulla rivista Environmental Research Letters – hanno fatto parte l’Enea - Agenzia nazionale per le nuove tecnologie, l'energia e lo sviluppo economico sostenibile, l’European Centre for Medium Range Weather Forecasts (ECMWF, Gran Bretagna), il Royal Netherlands Meteorological Institute (KNMI, Olanda) e Deltares (Olanda).
“Le analisi innovative, condotte combinando insieme per la prima volta i dati climatici con oltre 30 anni di osservazioni satellitari di copertura nevosa, vegetazione e riflettività delle superfici alla radiazione solare, hanno quantificato una notevole diversità spaziale dell’effetto dovuto alla neve e alla vegetazione”, quanto affermato da Andrea Alessandri del Cnr-Isac. Secondo i dati raccolti, infatti, nelle regioni dominate dall’effetto della riduzione della neve (alte latitudini e/o grande elevazione sul livello del mare) è stato stimato un ampio incremento della radiazione solare assorbita, che contribuisce a un’amplificazione dell’aumento delle temperature dovute al riscaldamento globale (effetto di retroazione positivo).
Osservando invece l'espansione della vegetazione (foreste boreali, temperate e tropicali) appare chiaro che si producono “effetti di retroazione sia positivi che negativi in diverse regioni e stagioni, a seconda delle caratteristiche della superficie che viene sostituita”, ha sottolineato Alessandri.
In pratica si rileva che l’espansione della vegetazione rimpiazza una superficie con riflettività maggiore alla radiazione solare (ad esempio. la neve) l’effetto sarà un aumento della radiazione assorbita (retroazione positiva al riscaldamento globale); se invece la superficie sostituita ha minore riflettività (ad esempio, suoli scuri) l’effetto della espansione della vegetazione sarà un aumento della radiazione riflessa (retroazione negativa al riscaldamento globale). Le conclusioni dello studio hanno dimostrato che nel complesso la vegetazione ha esercitato un effetto di retroazione negativo durante gli ultimi 30 anni con una tendenza quindi a contrastare l’aumento delle temperature dovute al riscaldamento globale. Si tratta di dati e osservazioni senza precedenti “per lo sviluppo dei modelli del sistema Terra di nuova generazione che sono necessari per la valutazione delle strategie da intraprendere per mitigare i cambiamenti climatici futuri”, le conclusioni dei ricercatori.
Sempre dal Cnr, ci viene la seconda riflessione secondo la quale i rifiuti di plastica e microplastica nell'oceano stanno aumentando nelle aree estreme mentre sono stabili sulle coste più antropizzate, nonostante le previsioni di aumento complessivo. Uno studio che sottolinea la necessità di studiare meglio i fenomeni di provenienza, degrado e spostamento di questi rifiuti, dovuti anche ad azioni in apparenza innocue, come il lavaggio di capi di abbigliamento. A questa considerazione è giunto un articolo internazionale a cui ha partecipato l’Istituto di scienze polari del Cnr, e pubblicata su Microplastics and Nanoplastics.
Sul trend e il ciclo dei rifiuti di materiali plastici riversati nell'ambiente marino rimangono ancor oggi importanti domande senza risposta. Infatti, sebbene si sia potuto stabilire che vaste quantità di plastica entrano nell'oceano ogni anno, insieme ad altri rifiuti, resta difficile poter valutare le tendenze effettive del loro flusso, poiché non ci sono stime affidabili né per la quantità sedimentata nel fondo marino, né per l'input di microplastiche che avviene attraverso la deposizione atmosferica. Inoltre, le fonti di provenienza sono troppo numerose e ancora non del tutto definite.
Secondo lo studio “in mare le plastiche galleggianti si frammentano gradualmente in particelle più piccole. Particolarmente preoccupanti sono le microplastiche, particelle di dimensione tra 1 micron e 5 millimetri, il cui impatto sull'ecosistema marino è ancora oggetto di ricerca a uno stadio iniziale”, ha osservato Maurizio Azzaro, responsabile della sede Cnr-Isp di Messina e coautore dell’articolo. “È comunque confermato da diversi studi scientifici il passaggio nella rete alimentare delle microplastiche, ritenute una delle sei emergenze mondiali dell’ambiente, con forti ripercussioni sulla salute umana”.
Di grande complessità stabilire la provenienza delle microplastiche sversate in mare. Tuttavia un piccolo esempio viene da gesti consueti, come quello di lavare un capo di abbigliamento in fibra sintetiche. Ogni volta queste fibre vengono veicolate dagli scarichi nell’ambiente marino. Questa azione che a noi risulta naturale provoca enormi danni all’ambiente, ancor più se commessa in ambienti estremi come quelli dove sono ubicate le basi scientifiche polari”.
Ecco perché dallo studio viene un ulteriore elemento: mentre nelle zone costiere la quantità di rifiuti plastici è rimasta costante negli ultimi anni, fino al 2019, in aree remote se ne osserva un aumento. Interpretare questi dati potrebbe far pensare ad un trasferimento a lungo termine di rifiuti, dalle aree urbanizzate colpite più direttamente alle regioni in cui l'attività antropica è estremamente ridotta o assente”. Un fenomeno insolito da valutare, si osserva nell’articolo, perché mentre la quantità totale globale di rifiuti di plastica è prevista dai modelli in aumento, la situazione apparentemente stazionaria delle quantità nei sistemi costieri pone una sfida alla capacità di previsione. “Le domande sul destino dei rifiuti plastici, su come si degradano e si spostano in mare non hanno avuto una risposta completa e nel prossimo decennio, dedicato dalle Nazioni Unite alle scienze oceaniche, questa dovrebbe essere sicuramente una priorità”, la conclusione.
Due esempi lontani tra loro, tra i tanti dei quali occorre occuparsi per avere una visione il più possibile completa di quanto avviene sulla Terra, ma certamente interessanti per comprendere la complessità e le interazioni che possono crearsi tra elementi diversi, lontani, anche opposti tra loro. Una sfida ulteriore per stabilire il come procedere e valutare ogni azione da intraprendere in relazione all’insieme degli equilibri e delle compatibilità ambientali del nostro pianeta da tenere in conto!