I greci intuivano nella linea che tratteggia gli occhi e il becco della civetta le forme della lettera φ (phi), simbolo alfabetico della filosofia, in seguito della sezione aurea: un segno grafico che connette armonia, proporzione, bellezza e conoscenza. Una civetta, come la sapienza, vede nell’oscurità. Ma gufi, civette e nottole sono stati un tempo i compagni fedeli dell’antica Signora degli Animali e dei Serpenti: sono stati i suoi occhi nella notte, le hanno trasmesso il dono della veggenza, la visione lunare, la capacità di interrogare le ombre. Prima ancora, forse, quando la Dea Uccello era primitiva e libera, sono stati la prima epifania del femminino sacro. Da allora, la strix ha compiuto mille metamorfosi: ogni volta che una donna ha osato volare, ogni volta che è stata riconosciuta sacerdotessa o strega, che è stata perseguitata, diffamata o uccisa. Quando la dea è stata esiliata, anche i suoi famigli sono stati confinati nel recinto dei reietti, degli indesiderabili.
Bandito è il loro canto, forse oramai un grido, e così allontanata e resa inudibile la loro voce di sapienza e il loro potenziale misteriosofico. La adotto quindi, ed è divenuta la mia emissaria, una testimone, e ancor più un “memento”. Affido alla pittura la facoltà e la funzione di conservarne il canto e l’incanto. E come le Regine che accompagnano, anche loro ci invitano…
(Octavia)
Il femminino regale non ha mai smesso di brandire serpenti e di avere rapaci come fedeli custodi, placidi sulla spalla oppure superbi e fieri sull’avambraccio. Rettili e rapaci, un tempo guardiani di alberi sacri di cui onoravano radici e chiome in una eterna dialettica fra energie celesti e ctonie, hanno continuato a danzare le loro liturgie intorno a quel corpo-simulacro, anche se trasfigurato in forma di donna.
Sette sono i ritratti di Regine Selvane di Octavia Monaco. Sette, come i sette giorni che scandiscono ogni fase della Luna, evocando tutta la magia della dea d’argento. Hanno uno sguardo sconcertante, impenetrabile come il loro mistero: occhi come baratri attraverso i quali guardare le ombre, per coglierne inaspettati agganci salvifici. Sono silenti, avvolte in una staticità apparente, e nel loro silenzio ci interrogano, ci interpellano. La condizione ineludibile del loro manifestarsi è l’inafferrabilità; forse, come la dea Artemide, conservano la verginità delle foreste che sono il loro tempio, abitano i monti e le selve e del sottobosco indossano il verde fresco. Santificano una femminilità primordiale e libera, l’indomabile vita selvaggia che non può essere addomesticata; come ninfe, o fate, il loro spirito è botanico, ma l’anima è di donna.
Se catturate con un rito paziente e caparbio, sarebbero potute divenire fedeli mogli e madri, ma solo fino alla "chiamata" del ritorno. Allora, nulla, nulla le avrebbe potute trattenere.
(Octavia)
Il corpo di una Regina Selvana è epifania di una metamorfosi vegetale. Gemma e ramifica, è abitato da ospiti boschivi, animali che brulicano su di lei, in lei e intorno a lei, percorrendone il corpo in armonia con lo scorrere delle sue linfe segrete. Una Regina Selvana è schiva e boschiva: è dea fiore, dea germoglio, dea grembo, dea radice. Fata e strega, espressione di una regalità che abita regni di profondo notturno, luoghi di sussurri e altre voci. Il suo volto può confondersi con quello degli animali che abitano la sua più intima natura, e come un tempo Ecate presso i trivi, può mostrarsi indossandone le spoglie. Quali animali la seguono e obbediscono al suo cenno? Forse il cervo, la lepre, il daino, la quaglia, che possiedono una natura sfuggente e amano vivere ritirati, ma anche l’orsa, che dell’antica dea conserva la forza distruttiva e la natura materna. Una lupa, talora, la accompagna docile.
Le Regine Selvane abitano regni di soglia e si rivelano improvvise, quasi per azione di un incantesimo. Possiamo intuirne la presenza per un breve attimo, prima che sfuggano e tornino a confondersi con i segreti del sottobosco; ci convinceremo allora di avere preso un abbaglio, di esserci fatti confondere da un gioco di luce, dal baluginare delle foglie, dai passi timidi di un leprotto spaventato. Di avere soltanto desiderato scorgere l’invisibile, l’impossibile. Si manifestano quasi in trasparenza: volatili come aria, liquide come acqua, odorose come terra. Preziose e fragili come cristallo.
Le considero invero, “giardini di cristallo”. Luoghi animici che nel mio intento, in virtù della condizione di contemplazione e del loro muto osservarci, possono invitarci alla nostra essenza regale. Archetipi di un femminile evoluto e consapevole, la loro maestà però non ha la tradizionale gemmata corona. Si vestono e si adornano e si fondono e si confondono con gli esseri viventi di Natura: fiori, piante, animali selvatici e tra questi, in primis, gli strigiformi.
(Octavia)