Se ci viene detto di “Non pensare agli elefanti...”, a cosa pensiamo?
È il 1955 e a Parigi è tempo di circo.
Il circo è levità, spensieratezza, giocosità.
Al n. 110 di rue Amelot, nell'XI arrondissement, vi è il Cirque d'Hiver un imponente edificio in stile napoleonico, a pianta centrale e dalla forma poligonale, ideato dall'architetto Jacques Hittorf (già realizzatore del Cirque d'Été e della Gare du Nord).
Fu commissionato dall'allora proprietario del Cirque d'Été, Louis Dejean e venne inaugurato l'11 dicembre del 1852, alla presenza del principe Luigi Napoleone (futuro imperatore Napoleone III) a cui la struttura era inizialmente intitolata. Muterà il suo nome alla fine del Secondo Impero, quando da Cirque Napoléon diverrà Cirque National e dal 1873, definitivamente, Cirque d'Hiver de Paris.
Nel 1934, avviene il passaggio di proprietà nelle mani della famiglia circense Bouglione: quattro fratelli che manterranno la loro arte al servizio di questo tempio dello spettacolo e lo renderanno grande nel mondo.
Nel 1955, in questo luogo magico, di 42 metri di diametro, lungo percorsi di paglia, attraverso recinzioni e indomiti addestratori, trapezisti, buffoni ed esotici animali, si ritrova l'attenzione internazionale delle arti più pionieristiche di quel tempo, dal cinema alla fotografia.
Sono gli anni in cui, nella capitale francese, la passione travolgente per la forma del corpo ritrovato ha azzerato il severo ricordo del periodo bellico.
Dal 1946 sino all'inizio del 1947 è germogliata quella fisicità femminile, sinuosa come uno stelo, che ha la ragione della vanità per imporsi, a corolla, sulla scena dell'emozione sociale come specchio della rinascita dettata dai canoni deificatori di un unico grande arbitro di stile: Christian Dior.
Il numero 30 di Avenue Montaigne diviene il posto delle sperimentazioni volumetriche più verticali della moda.
Lontano da quei luoghi, al numero 11 di rue Storano, ad Oran in Algeria, un ragazzo ripercorre l'essenza della femminilità attraverso la figura di Madame Lucienne, sua madre. Questo ragazzo si chiama Yves ed è figlio di Charles Mathieu Saint Laurent, direttore di una compagnia assicurativa e di una catena di cinematografi, appartenente, per nascita, all'alta borghesia legata alla tradizione della magistratura.
La famiglia Mathieu Saint Laurent è ricca di sensibilità nei confronti delle arti in generale e del teatro in particolare.
L'educazione al bello, che si respira in ambiente domestico, porta il piccolo Mathieu Saint Laurent (smetterà l'utilizzo di Mathieu nel 1957) a manifestare precocemente un segno grafico formidabile. Prima testimonianza di tale capacità risale allo schizzo di un abito del 1951.
L'arte del teatro è tra le sue predilette. Nel 1950, ad Oran, assiste alla rappresentazione de L'École des Femmes di Molière le cui scene mobili ed i costumi sono opera di Christian Berard.
La figura di Berard illustratore per Dior, Schiaparelli, Chanel e numerose riviste dell'epoca, pittore, scenografo e decoratore per cinema e palcoscenico, diviene centrale per la formazione al disegno di Yves. Da Berard apprende la capacità di dare profondità ai volumi dettagliati dei corpi dei suoi acquarelli attraverso l'uso di carte colorate e caratterizzando al minimo i volti per dare maggiore rilievo ai vestiti.
Il risultato scenico che l'abito ottiene è di grande profondità e sapienza volumetrica e luministica, non tanto prospettica (in questa non eccelleva) e l'emulazione di tale tecnica darà i suoi frutti nella realizzazione di un piccolo teatro che chiamerà “L’Illustre Théâtre” che Saint Laurent si costruisce ad uso domestico, per suo diletto e per quello dei famigliari.
Quando, nel 1953, giungerà a Parigi creerà delle Paper dolls che avranno poi espressione nell'applicazione diretta alla realtà della Haute Couture.
La mano creativa di Saint Laurent realizza come un lampo ogni sua visione. È il padre (suo grande estimatore e sostenitore) che ogni volta lo spinge nella capitale francese ove si iscrive al concorso indetto dal Secrétariat International de la Laine vincendo il terzo premio nella categoria abiti.
Sempre nel '53, tramite i contatti paterni, incontra Michel de Brunhoff, redattore capo di Vogue Paris e nasce un rapporto di profonda stima ed amicizia oltre che un intenso scambio epistolare.
Su suggerimento di quest'ultimo rientra in Algeria e si diploma presso l'istituto religioso dove era già iscritto.
Nel 1954, torna in Francia, indirizzato dalla famiglia e dal dierttore di Vogue, per frequentare l'école de La Chambre Syndacale de la couture, dove rimane per un periodo brevissimo.
Il 25 novembre di quello stesso anno si ripresenta al concorso del Secrétariat International de la Laine e vince il primo ed il terzo premio, nella medesima categoria dell'anno precedente.
In giuria vi sono sia Christian Dior che Hubert de Givenchy e sarà quest'ultimo a mettere in produzione il modello vincitore: prima realizzazione di un capo disegnato da Saint Laurent.
Nel giugno del 1955 si reca da de Brunhoff con una cinquantina di schizzi. Ha solo 18 anni. Costui resta folgorato dal talento grafico e creativo del giovane che già a suo tempo aveva lasciato un segno indelebile nella sua memoria e quanto vede lo porta a scrivere ad Edmonde Charles Roux, futura caporedattore di Vogue Paris, dichiarandole che mai, nella sua vita, aveva incontrato qualcuno di più dotato di quel ragazzo.
L'assonanza dello stile Saint Laurent con la linea ad “A” di Dior è sorprendente e de Brunhoff decide di mostrare quei disegni al couturier di Avenue Montaigne che lo assume seduta stante.
È il 20 giugno 1955 ed il ragazzo di Oran entra di diritto alla Maison Dior dalla porta principale. Diviene “Delfino” del grande couturier, in una città che sta scoprendo la contaminazione degli stili nel variegato circo della moda. È qui che entra in scena quel Cirque d'Hiver citato all'inizio di questo racconto e che ha un ruolo fondamentale nel percorso dove il mondo animale si fonde con il glamour in favore dell'Arte.
Dal “Delfino” del New Look (termine che definisce il ruolo del designato erede di un “regno”), agli elefanti, il passo è breve: di mammiferi si tratta, ma anche di uomini che partecipano della categoria e che giocano nell'elaborazione eclettica di quanto a noi interessa in questo frangente, ossia lo stile.
Se i delfini a Parigi sono sotto forma umana gli elefanti di questa città che forma anno?
Semplicemente la loro: giganteggiante, imponente, ruvida ancestrale, animale. Li possiamo trovare sotto le volte di quel Cirque d'Hiver, nel 1955, dove li scova anche colei che aveva battezzato la linea ad “8” di Christian Dior, il 12 febbraio del 1947, definendola “New Look”. Quella Carmel Snow, caporedattore di Harper's Bazaar, che con il suo potere decretava il successo di una maison nel “Nuovo Continente”.
Costei commissiona, per il numero di agosto, ad illustrazione della sua rubrica Carmel Snow's Paris Report, un servizio fotografico dedicato alla Haute Couture parigina ambientato nell'ambito circense, vedendo, nella presenza esotica di questa storica realtà dello spettacolo, un'opportunità espressiva per la rivista. Proprio quel “Circo d'Inverno”, della capitale francese, a cui, con ironia, “non dobbiamo pensare” riferendoci agli “elefanti...” ma che la Snow vede come essenziale.
Mai un servizio d'alta moda aveva avuto una simile contestualizzazione.
La stella delle modelle, Dovima, tra le più quotate del tempo, si fa portatrice di alcuni dei capi iconici della moda autunno inverno 1955-1956, in un universo elefantiaco, ritratta dall'occhio visionario del fotografo statunitense Richard Avedon.
In uno di questi scatti indossa proprio un modello di Christian Dior intitolato Soirée de Paris della collezione ispirata alla lettera “Y”. Linea affusolata a sottolineare le forme del corpo in una carezza di velluto di seta nero. Maniche a guanto e scollatura ellittica a scoprire quel promontorio da dove si erge lo sguardo per la gioia degli occhi. Occhi che, con un tuffo verticale, come una freccia, penetrano nel fendente luminoso che l'arciere (il couturier) ha posto al centro del respiro femminile a dividerne i volumi in una triangolazione letterale (Y).
Il tutto avvolto dall'aereo abbraccio, alla base dei seni, di un appassionato satin di seta avorio, frontale, come la zanna più temibile del più ruvido animale: snodo dall'incalcolabile volume che nel suo evolversi incompiuto, squarcia di luce, come un indomito lampo, la vellutata notte dell'anatomia femminile.
Quest'abito è il protagonista dello scatto più celebre della storia della moda: Dovima e gli elefanti per “Le Cirque D'Hiver”.
L'eterea e stilizzata forma della modella si pone dinanzi al gruppo dei due pachidermi, Frida e Marie, governati dal domatore Sampion Bouglione (membro della famiglia circense del “Cirque d'Hiver”) che dietro l'obiettivo deve portarli alla sapiente esecuzione della posa richiesta. Costui ha il compito di far muovere gli animali, ancorati a terra da delle catene, non troppo costringenti, su di un selciato ricoperto di paglia.
Gli elefanti vanno in posa, ponendo la proboscide verso l'alto, al suono della parola d'ordine “TROMBA”, in una sorta di sollevamento etereo della loro imponente, quanto rugosa massa, su un fondale che, nel bianco e nero fotografico, rappresenta il luogo del circo.
Il movimento sincronico degli animali si realizza in simbiosi con l'estensione delle braccia di una impavida Dovima che ponendosi altera, con il volto di profilo rivolto al cielo, tocca con la mano destra, inarcandosi, la proboscide dell'uno, come per appoggiarvisi, mentre con il braccio sinistro segna una traiettoria che va verso l'infinito, attraversando la figura animale che le fa da sfondo, a sottolineare lo spazio etereo del sogno.
Tutto questo è esaltato dalla scollatura dell'abito che presenta una triangolazione geometrica evidente e dal tratto drappeggiato della fascia di seta lungo tutta la silhouette della donna.
L'effetto aereo e straordinariamente elegante dei volumi ritratti e dei piani è dato dalle curve continue dei corpi e dal movimento assoluto di ogni soggetto che sembra perdere cognizione della forza di gravità e del suo peso specifico.
La figura levigata della protagonista dialoga, per contrasto, con l'abrasiva superficie epidermica degli elefanti e con il rustico contesto spaziale.
L'atmosfera regala una presenza formale che non ha eguali e realizza in uno scatto la grafica della lettera “Y”, tema della collezione di Dior, attraverso la posa della ragazza che dilata il concetto insito nel taglio dell'abito e ancor di più rivela la mano che lo ha disegnato e sigla per sempre il futuro dello stile nella moda celato dall'etichetta Dior: quel Yves Mathieu Saint Laurent che con questa sua creazione segna il suo ingresso ufficiale nella maison più prestigiosa di Francia e che dal 1957 in avanti diverrà la “Y” più significativa della storia del costume mondiale.
Dunque, se vi dicono di “Non pensare agli elefanti” si tratta di non poter prescindere da essi... Giganti che sono dell'arte l'atemporale presenza da cui mai discostarsi e i cui nomi sono sinonimo di stile assoluto.
Avedon, Dior, Y...