Mi sembra che dai precedenti dialoghi sia emerso un concetto fondamentale: il clima di un’organizzazione rispecchia il suo ‘essere etico’ e dunque la sua ‘identità’. Pur essendo la percezione del clima aziendale personale e mutevole, è l’identità compartecipata a ispirare la maggior parte dei comportamenti organizzativi.
Esatto. L’identità deve poter cambiare i suoi tratti tempo per tempo; l’avere codificato l’identità può avere uno scarso significato quando si affronta il tema dell’identità organizzativa nel tempo… l’identità è un sistema complesso che si trasforma e si evolve. Il processo di generazione e di allineamento dell’identità segue i principi dell’auto-organizzazione e dell’emergenza, due tra le più importanti proprietà di funzionamento delle organizzazioni complesse. L’etica del know-how è un saper essere; e perché sia un saper essere, è necessario riconoscersi nell’identità cui si appartiene e sentirsi a propria volta riconosciuti, e ciò indipendentemente dal significato che ognuno dà all’identità cui appartiene. L’identità emerge proprio dal significato che ognuno dà ad essa, in cui non vi deve essere una omogeneità di vedute, quanto piuttosto la possibilità di integrare visioni diverse. L’identità emerge proprio dalla contaminazione e dall’integrazione delle diversità. Persone diverse, comportamenti diversi, impatti diversi, situazioni diverse, dinamiche collettive diverse.
Potresti farmi un esempio concreto per favore?
Certo. Mi chiedo: perché c’è contrapposizione all’interno delle organizzazioni d’azienda fra il sindacato dei lavoratori e quello degli imprenditori? Perché non dando lo stesso significato all’azienda, cosa che ovviamente non avrebbe senso che avvenisse, ogni parte si identifica con il proprio significato, non accettando quello dell’altra parte e ponendosi così in contrasto. Ciò non consente di integrare entrambe le visioni in un’unica visione che non solo comprenda i diversi significati, ma in qualche modo li trascenda, conducendo a una visione comune che è l’identità in cui sia possibile non solo riconoscere se stessi, ma anche l’altro diverso da sé. Il modo in cui i dipendenti intendono l’azienda per cui lavorano non è lo stesso di come la intendono l’imprenditore o il consiglio di amministrazione o il cliente o il fornitore. A ben vedere, per tutto quello che ci siamo detti finora, ciò potrebbe non essere assolutamente d’ostacolo al formarsi di una visione comune, anzi.
Quindi il problema etico non è tanto un problema di significato, o di diversità dei contenuti sulla base di quali si sviluppa una dinamica relazionale tra le parti, quanto piuttosto di condivisione del: “Perché sto facendo queste attività?” per le quali il contributo di ognuno è pariteticamente decisivo nel progettare e raggiungere una finalità comune. Si potrebbe dire che la condivisione avviene a un livello diverso, più elevato rispetto al significato che ciascuno attribuisce all’organizzazione cui partecipa. Si tratta, cioè, secondo il linguaggio della complessità, di un livello relazionale 'emergente' rispetto al livello precedente.
Sì, si tratta di un livello globale, che emerge dall’interazione tra i livelli locali di ciascuno. Riconoscersi in un’organizzazione aziendale intesa come identità significa sentire che si sta partecipando a far emergere un nuovo ambiente in cui il significato di ciascuno è un contributo importante ma non dominante e decisivo per la formazione del significato collettivo. Si tratta della fusione di sistemi dentro sistemi per la generazione di un sistema che ne trascenda i significati nel rispetto dei vincoli di significato posti dai sistemi che si contaminano e si accoppiano.
Ciò, mi pare di capire, consente di non rimanere attaccati al proprio significato, di non identificarsi in modo esclusivo ad esso... La cooperazione per la generazione di un significato comune avviene a un livello di identità basato sulla reciproca fiducia. Tuttavia, noi non abbiamo posto come presupposto alle nostre affermazioni che la qualità dell’identità sia di un certo tipo piuttosto che un’altra; abbiamo solo detto che il presupposto per un comportamento etico basato sul know how è che vi sia un’identità.
Possiamo, quindi, in questo senso parlare di qualità? Io credo di sì. E, se parliamo di qualità, è anche vero che la cooperazione tratta di valori e di scopi di comunità, e non più di interessi specifici, che hanno invece a che vedere soprattutto con l’aspetto quantitativo. In tal senso è necessario fare attenzione: troppo spesso le persone si richiamano ai propri valori, ai valori personali come quella cosa dalla quale non è bene derogare. Mi chiedo, infatti: ma i valori personali così sbandierati come essenziali ed inderogabili non sono essi stessi - in quanto appartenenti al dominio della persona - dei costrutti soggettivi e in quanto tali corrispondenti a specifici interessi? E mi chiedo ancora: è coerente dialogare di valori personali in un approccio complesso quanto piuttosto di valori di comunità?
Ad ogni modo, se noi ragioniamo sul concetto di identità come aspetto qualitativo e valoriale perché emerge dall’interazione tra più persone possiamo poi porci la questione essenziale della tipologia etica… Per fare un esempio, un’azienda potrebbe aver sviluppato la propria immagine su concetti non qualitativi ma quantitativi, come: siamo i più competitivi, siamo i più aggressivi. Questo può facilmente portare alla condivisione da parte di tutti i dipendenti di questo approccio, perché consente loro di guadagnare di più, di avere successo, ecc. È un’identità anche questa, una identità di tipo quantitativo?
Io credo che, affinché la maggior parte di coloro che partecipano a un’organizzazione possa sentire di appartenere a un’identità, occorra che vi sia una visione comune dell’organizzazione; sappiamo anche che si riesce a trovare una convergenza cooperativa tra le persone man mano che si sale nella loro scala dei valori, ossia man mano che si abbandonano gli interessi personali e si punta alla condivisione di valori comuni, relazionali e alti (ad esempio: rispetto, fiducia, gentilezza, onestà, amorevolezza, comprensione umana, accettazione della diversità, accoglienza, etc.).
Gli interessi quantitativi, anche se importanti ed essenziali per il business, tendono a rimanere comunque di parte, poiché è difficile riuscire a condividerli fra molte persone trovando la propria ragion d’essere nella situazione ‘locale’ della persona. Il fatto che al momento in cui si fonda un’azienda le persone si identifichino con l’essere fortemente competitivi e aggressivi sul mercato, comporta un altro fatto speculare e contrario; non appena l’azienda inizia a perdere competitività sul mercato, ‘tutti i topi abbandonano la nave’. Perciò quando le persone aderiscono a un’unione fondata sulla composizione temporanea e approssimativa di una molteplicità di interessi soggettivi non si genera un’identità quanto un’identificazione in un sistema di interessi locali resi comuni da un valore di convenienza temporanea; è dunque difficile che questa organizzazione riesca a mantenere una forte aggregazione su un livello così basso di valori. Perché si possa mantenere una durevole alleanza di intenti fra tante persone - e questo, per fortuna, crediamo faccia parte della natura umana - è necessario che si lavori per riconoscersi in un livello gerarchico elevato nella scala dei valori. Se si vuole generare nel tempo un’identità comune, che non duri solo una fase di marketing, occorre salire di livello: le persone si riescono ad aggregare per un periodo medio/lungo sui valori umani più importanti, che non sono certamente limitati a quelli del successo ottenuto dal ‘vinca il più forte’.
E con questo ti rispondo anche sul concetto di etica: etica non è altro che questo livello più elevato di valori. Si trova condivisione allargata fra molte persone per un periodo di tempo che non sia breve quando si tratta di principi etici generali: principi etici generali vuol dire che appartengono alla generalità delle persone, che non sono altro che quelli ritenuti evidentemente come capaci di assicurare una ‘buona vita’ a più persone possibili. Se, infatti, si pensa di assicurare una buona vita a pochissime persone, per esempio a quelle dell’azienda cui si appartiene - che deve essere la più forte, la più ricca e quella più di successo sul mercato - questo è un valore che si riesce a condividere per un brevissimo lasso di tempo … dura fino a quando le persone non trovano un’azienda più aggressiva, più ricca o più di successo! Perciò, il principio etico più generale di tutti è quello di assicurare una buona vita a quante più persone possibili - dunque dentro e fuori l’organizzazione - e, allargando ancor più questo concetto, non solo per l’oggi ma anche nel futuro e, infine, non solo alla nostra generazione ma anche alle generazioni successive.
Riassumendo: mi sembra che nel nostro dialogo ci siano due importanti presupposti: il primo è che l’identità di un gruppo sia la manifestazione della dinamica di un sistema di valori compartecipato e condiviso e il secondo è che l’identità si generi secondo dinamiche complesse. In altri termini, ciò che noi presupponiamo è l'esistenza di un paradigma interpretativo delle relazioni umane fondato sulla teoria della complessità... c'è da chiedersi allora quali ne siano le principali caratteristiche o proprietà.
Bene, svisceriamo questi argomenti uno per volta; incominciamo dall'esistenza dei presupposti. Certo che ci sono alcuni presupposti teorici nei nostri discorsi: siamo partiti dalla considerazione che esiste e opera in maniera diffusa nelle persone un know-how dell’etica, ossia un saper essere etico che ci appartiene in modo istintuale. Ma perché questo avvenga, occorre che la persona sia in relazione con ciò che avvolge il suo corpo e la sua mente, ossia con il suo ambiente; è solo così che si può manifestare quella immediatezza quella prontezza all'azione di cui parla Varela.
Il nostro presupposto fondante, dunque, è che l’identità ha una forma che noi definiamo relazionale perché emerge dalle relazioni con l’altro e con l’ambiente che abitiamo. L’identità è in una relazione attiva e di cooperazione generativa con ciò che la circonda, in una dinamica di trasformazione sia di sé che dell'ambiente con cui è in relazione. A un livello diverso, perché possa emergere un'identità relazionale tra due persone e in un gruppo di persone, come in un'azienda, occorre una condivisione di valori, ossia una ‘con-visione valoriale’; quando parliamo di condivisione, di identità e di etica - intesa nel senso del come - non si può che essere in un contesto caratterizzato dalla complessità, ossia in una ‘visione’ di reti di relazioni interconnesse.
È proprio il riconoscimento degli effetti della dinamica delle relazioni, caratterizzata dall'emergere senza soluzione di continuità di reti di relazioni di livelli gerarchici sempre più elevati, che ci consente di parlare di identità relazionale. In un’analisi dell'etica come know-what non c’è bisogno di tutto questo.