Passato il periodo medievale, o fase “arcaica”, le ceramiche di Faenza, specie quelle smaltate (o maioliche), si perfezionano sia nella bianchezza e corposità del rivestimento (smalto) sia nella gamma cromatica, grazie anche all’adozione di nuovi colori.
Complessivamente la produzione delle botteghe faentine del primo Rinascimento, o stile “severo” per la sobrietà dei temi ornamentali ben definiti e ricorrenti, può essere distinta in due momenti principali, comprendenti a loro volta delle “famiglie” o gruppi decorativi; nel primo, sui temi della precedente fase medievale (“arcaica”) si osserva l’innestarsi di ornati derivati in parte dal mondo bizantino, come nella “famiglia” detta “della zaffera” (con blu dominante diluito o a rilievo), e in parte dalla cultura araba degli artefici moreschi delle officine spagnole, come nella famiglia “italo/moresca”; nel secondo, si affiancano ai temi goticheggianti della famiglia “gotico/floreale”, gli ornati di origine medio ed estremo/orientale delle famiglie “a occhio di penna di pavone”, “a palmetta persiana” e “alla porcellana”.
Accanto alla produzione smaltata, dalla fine del Trecento si realizza anche vasellame ingobbiato, graffito, dipinto e invetriato. La graffita tardo medievale, sino alla prima metà del Quattrocento, assume schemi e tematiche decorative fito/zoomorfe stilizzate (“arcaiche”), dipinte in una costante bicromia bruno/giallastra (“ferraccia”) e verde (“ramina”). Dalla seconda metà del Quattrocento invece matura la graffita rinascimentale, con una raffinata produzione in cui le tematiche elaborano soggetti simbolico/amatori (coniglia gravida, cuore trafitto, cane, ecc.) e volti di profilo, virili e femminili, di grande purezza lineare.
A partire dalla fine del Quattrocento e dagli inizi del Cinquecento, sulla maiolica faentina si manifesta il trapasso a un linguaggio artistico decorativo prettamente italiano. Così sulle maioliche, portate ormai al massimo della perfezione tecnica, compaiono ornati tipicamente rinascimentali (fiori quadripetali, rosette, fogliami stilizzati) e soprattutto campeggia la figura umana, che acquista via via grande risalto, pur rimanendo ancora alle soglie del Cinquecento basata essenzialmente sulle soglie di un “tipo”: dama, paggio, musico, figura allegorica o “bella” donna. In seguito la maggiore apertura culturale e il più stretto legame tra l’arte della maiolica e la pittura fanno sì che si passi da un valore araldico e decorativo a forme sempre più sentite e personali della figura umana, avviando quel nuovo stile che, per il suo gusto narrativo, è detto “istoriato”.
Questa prima fase figurativa, o “primo istoriato” (1500/1525), vede i maestri faentini, quasi tutti anonimi, affrontare tematiche figurative semplificate. Successivamente, conferita all’”istoria” una maggiore e armonia e scioltezza nelle parti figurate, i maiolicari faentini affrontano rappresentazioni bibliche e mitologiche, sottoposte alla loro attenzione e imitazione da una committenza colta, attraverso le illustrazioni dei libri e delle stampe, aprendosi anche a nuovi e sofisticati traguardi tecnici; oltre al tradizionale a fondo bianco, inventano la maiolica “berrettina” grigio/azzurra, sulla quale dispongono temi decorativi come le “grottesche”, i “trofei” d’armi antiche, i festoni di foglie e frutti, i “quartieri”: è lo stile “bello” o “secondo istoriato”, definito dall’opera di insigni maestri quali Baldassarre Manara, Pirotto Paterni e i suoi figli (la Ca’ Pirota).
Poco oltre la metà del Cinquecento i maiolicari, dopo aver raggiunto insuperabili traguardi di cromatismo e decorativismo, figurato e non, imprimono una svolta sostanziale allo stile dei loro prodotti, con la realizzazione di manufatti comunemente denominati “bianchi di Faenza”. Questo nuovo stile è testimoniato con dovizia di documenti d’archivio da un gran numero di reperti archeologici e da molte opere, caratterizzate da un dominante smalto bianco, di grosso spessore coprente, da cui la comune accezione di “bianchi di Faenza”, e da una tavolozza languida che, dalla squillante policromia delle maioliche della prima metà del Cinquecento, si riduce ora a un turchino più o meno diluito e a un giallo di due toni (chiaro e arancione): è un radicale rinnovamento che punta a una maggiore valorizzazione delle forme degli oggetti, ora ricavati da stampi in gesso, e a una fresca delicatezza degli ornati. In ciò sta forse l’immediato successo e favore di mercato raggiunti dai “bianchi” quasi sino alla fine del Seicento.
Accanto a forme usuali (piatti, ciotole, versatoi) si notano oggetti con fogge mosse e stravaganti (obelischi decorativi, calamai a forma di gabbia, rinfrescatoi/portabottiglie con zampe leonine, saliere sorrette da delfini o da arpie) , ispirate in larga misura alle forme manieriste e barocche, agli argenti e ai bronzi. La decorazione si compone di semplici figure, putti, stemmi, ariose coroncine di foglie, dipinti con una fattura rapida, appena schizzata, compendiata, da cui appunto l’adozione del termine stile “compendiario” per tale genere di pittura su maiolica. I “bianchi” e la maniera “compendiaria”, che ha tra i massimi esponenti i maiolicari Virgiliotto Calamelli, Leonardo Bettisi (“Don Pino”) e i dalle Palle (o Giangrandi), incontrano una tale fortuna da indurre i maestri faentini ad allargare i loro mercati cercando maggiori spazi di lavoro in altre città e paesi dell’Europa, sia occidentale sia orientale.