Il Lampascione (Leopoldia comosa - Fam. Asparagaceae), chiamato anche cipollaccio col fiocco, giacinto delle vigne o cipolla canina, è una pianta erbacea caratterizzata da un bulbo ovoidale, di colore bianco-roseo, avvolto da squame bruno-rossastre (i botanici le chiamano tuniche). Presenta uno scapo eretto, cilindrico, alto 15-50 cm, con foglie lineari-acuminate, più corte dello scapo, erette da giovani, poi tendenti a prostrarsi. L'infiorescenza è vistosa, di colore violaceo, con fiori riuniti a formare una struttura cilindrico-piramidata, caratterizzata da un ciuffo apicale di elementi sterili (da cui l'appellativo di cipollaccio col fiocco).
Cresce nelle scarpate, lungo i margini di sentieri e strade, nei terreni incolti, frutteti, vigneti, prati e pascoli aridi. La radice, che è la parte commestibile della pianta, è molto ricercata e apprezzata in quasi tutte le regioni centro-meridionali, in particolare Puglia (in dialetto i bulbi sono chiamati pampasciuni), Calabria e Basilicata. Molise, Abruzzo e Basilicata. Nel resto del territorio nazionale il suo consumo è limitato ma in fase di espansione, molto probabilmente legato agli spostamenti verso Nord di persone che preservano le usanze e le tradizioni culinarie dei luoghi d’origine.
In passato, a causa delle ristrettezze alimentari, l’utilizzazione di questa pianta era molto più diffusa. In Piemonte, ad esempio, era conosciuta, fino a tutto il XIX secolo, con l’appellativo di “pan di cucolo”, in riferimento alla sua commestibilità e al fatto che la pianta manifesta il suo sviluppo nel periodo primaverile, in coincidenza con il ritorno di questo uccello; lo stesso nome era riservato anche all’orchide minore (Anacamptis morio (L.) R.M. Bateman, Pridgeon & M.W. Chase), una specie selvatica di cui si utilizzava il bulbo a scopo alimentare.
Oggi i Lampascioni si possono trovare anche sui banchi dei supermercati e molti di essi provengono da coltivazioni. Nella raccolta di questa pianta è necessario prestare attenzione alla possibile confusione con i bulbi del Colchico (Colchicum autumnale) che sono fortemente tossici.
Storia, miti e leggende
Il nome scientifico di questa pianta è dedicato a Leopoldo II (1797-1870), granduca di Toscana, appassionato di botanica e fondatore dell’Herbarium Centrale Italicum di Firenze. Il termine comosa, invece, di derivazione greca, significa “chioma” ed è riferito alla caratteristica forma dell'infiorescenza. Il termine di lampascione, potrebbe derivare dal latino lampathium con cui, nel periodo classico, erano designate diverse erbe, in particolare alcune specie del genere Rumex. I bulbi erano utilizzati sin dall’antichità dalle popolazioni dell’area mediterranea e asiatica per le loro proprietà afrodisiache; questa fama fu alimentata, nel corso dei secoli, da personaggi famosi come Plinio il Vecchio, Marco Agavio Apicio (lo chef più gettonato dell’antica Roma) e il gastronomo rinascimentale Baldassare Pisanelli.
Nella tradizione greco-ortodossa i lampascioni rappresentavano uno dei principali alimenti durante le ristrettezze imposte dai lunghi periodi di Quaresima pasquale. Ancora oggi gli abitanti di alcune zone rurali della Grecia e i monaci del Monte Athos raccolgono i bulbi avviene da febbraio a marzo, nel periodo che precede la ricorrenza di questa festività: è usanza consumarli conditi con olio extra vergine di oliva, accompagnati da pane integrale e da una misticanza di erbe selvatiche crude. Il succo ricavato dal bulbo di questa pianta, ricco di mucillagini, era impiegato per sigillare le crepe dei recipienti di terra cotta.
Impieghi alimentari e officinali
I Lampascioni sono considerati delle vere e proprie prelibatezze: si raccolgono dal tardo autunno fino alla primavera, avendo cura di scavare con impegno (possono raggiungere i 30 cm di profondità) e delicatezza (per evitare di danneggiarli). Contengono amido, zuccheri (fruttosio, glucosio, saccarosio e arabinosio), mucillagini, gomme e sostanze minerali (potassio, fosforo, calcio, ferro, manganese, rame e magnesio).
Il loro consumo avviene previa macerazione in acqua fredda per 12 o 24 ore, dopo averli privati delle tuniche esterne, in modo da stemperarne il sapore amaro che potrebbe risultare troppo marcato. Il metodo tradizionale di preparazione prevede di lessarli per 15 minuti in acqua salata, sostituire l’acqua, aggiungere del sale e riprendere la cottura per altri 15 minuti; infine i bulbi vengono tagliati e tenuti a macerare in acqua fredda per una notte intera.
Possono essere cucinati secondo diverse ricette tradizionali; generalmente dopo essere stati lessati, vengono conditi con olio crudo, peperoncino (o pepe) e aceto oppure succo di limone. Sono ottimi accompagnati da una salsa agro-dolce oppure fritti in pastella, rosolati al forno, cotti sotto la cenere o con le uova. In alternativa possono essere saltati in padella con burro e parmigiano oppure serviti con verdure, carne (soprattutto di agnello) o conservati sott’olio. Di questa pianta si utilizzano anche le foglie più tenere che possono essere consumate crude in insalata o cotte, miste ad altre verdure.
Le stesse indicazioni alimentari valgono anche per un'altra specie appartenente alla stessa Famiglia: la Bellevalia romana (L.) Sweet (giacinto romano), la cui morfologia è assimilabile al Lampascione, salvo differenze che riguardano l'infiorescenza e la struttura fogliare (le foglie sono più lunghe dello scapo e l'infiorescenza appare lassa, priva di fiori sterili) e il gusto che rimane meno pronunciato.
Altre specie commestibili appartengono al genere Ornithogalum, in particolare Ornithogalum umbellatum L., O. comosum L. e O. divergens Boreau. Il termine ornithogalum deriva dal greco ornisithos, uccello, e gala, latte, in relazione al latice che fuoriesce dal fusto spezzato. Di queste piante si utilizzano i bulbi (sono più piccoli rispetto a quelli del Lampascione, ma presentano un sapore delicato e dolce), le infiorescenze immature e i getti teneri; questi ultimi possono esser consumati crudi in insalata oppure impiegati nella preparazione di frittate, risotti e zuppe. In passato, durante le carestie, queste piante hanno rappresentato una “magra” alternativa alimentare per molte popolazioni europee.
A tutti questi bulbi, indistintamente, la medicina popolare riconosce proprietà diuretiche, antinfiammatorie, ipoglicemizzanti e disinfettanti, dovute alla presenza di mucillagini, tracce di olio essenziale, acidi fenolici, gomme e sali minerali. I bulbi di Leopoldia comosa, in particolare, sono utili per la loro azione lassativa, emolliente, ipotensiva e antiossidante (dovuta alla presenza di flavonoidi, soprattutto quercetina). Nella medicina popolare, i bulbi ridotti in poltiglia, sono applicati sulla pelle per trattare infiammazioni, scottature, ascessi e foruncolosi.
Nel caso di piante dotate di bulbo, l’unica accortezza da seguire, durante la loro raccolta, è di stare attenti a non confonderle con specie velenose dall’aspetto simile; nel dubbio, è meglio avvalersi della consulenza di un esperto.
Tratto da Cultura e salute delle piante selvatiche – Le radici, di Maurizio Di Massimo e Sandro Di Massimo, Aboca Edizioni