Ama Sangara è un giovane di lingua Dogon proveniente dal Mali. È nato e vissuto a Tiogou nella zona di Mopti. La sua è la storia di tanti africani che, nel tentativo di raggiungere il nostro paese, hanno vissuto la brutale esperienza della prigionia in Libia e la drammatica traversata del Mediterraneo. Da circa un anno Ama vive nel nostro paese, ospite dell’Associazione Pacefuturo. Recentemente gli è stata concessa la protezione umanitaria.
La storia di Ama è una di quelle storie che ci permette di cambiare la prospettiva del nostro sguardo sul fenomeno migratorio, mostrandoci tutta la drammaticità, la complessità e la bellezza dell’incontro tra esseri umani provenienti da latitudini diverse.
I Dogon sono conosciuti per la raffinatezza dei loro manufatti: le maschere, gli oggetti in ferro battuto, i costumi, le case. I codici decorativi, le proporzioni, i colori, tutto viene ancora oggi tramandato di generazione in generazione. Mi hai raccontato della tua esperienza di decoratore, hai avuto una formazione particolare? Come si diventa decoratori nel tuo villaggio? Come si diventa artisti?
Il ricordo più lontano legato al dipingere è quello di me bambino mentre restauro delle case di fango dopo la stagione delle piogge. Ogni anno veniva creato un gruppetto di bambini e sotto la guida di un adulto, un decoratore esperto, ci venivano insegnate le tecniche principali come la creazione dei colori - il bianco veniva fatto pestando un cereale chiamato Woh, il rosso con il sangue e il nero con del carbone - e la conoscenza dei principali motivi ornamentali. Ogni casa era caratterizzata da bassorilievi di terra che raccontavano la storia di chi ci abitava o ci aveva abitato. Noi però ci occupavamo solo alla parte pittorico-decorativa.
C’era un altro posto dove stagionalmente venivamo condotti, una grande parete di roccia, sulla faleise, dove si praticavano i riti della circoncisione e dell’iniziazione alla maturità maschile. Lì ricordo c’erano delle decorazioni molto belle e particolari, animali, scene di vita del villaggio,ritratti di persone importanti della storia del villaggio. Quella è stata la mia scuola.
Prima di venire in Italia non avevo mai sentito la parola “Artista”, sinceramente ancora fatico a comprenderne il significato. Nel mio villaggio ci sono sempre stati molti artigiani, quello sì, uomini bravi a scolpire il legno e spesso loro stessi capaci di decorare a pennello le loro opere. Ma le stesse persone lavoravano anche la terra, in questo caso intendo dire che erano anche contadini. Anche io ogni giorno lavoravo nei terreni della nostra famiglia dedicandomi alla coltivazione delle cipolle. Molti dei miei lavori sono legati al ricordo, alle immagini di quelle ore trascorse a lavorare. Ogni volta che chiudo gli occhi riesco a rivedere tutto. Oltre, naturalmente, alle cose della vita del villaggio, al luogo dove abitavo. E alla casa della memoria.
Cos’è la casa della memoria?
È uno spazio annesso alla casa della mia famiglia. La nostra era una famiglia importante. Mio padre era il capo del villaggio e per questo , tra le sue varie funzioni, aveva anche quella di guardiano della memoria. In quella grande stanza venivano raccolti tutti gli oggetti a testimonianza della nostra storia. C’erano sculture di ogni genere, alcune anche molto antiche e poi maschere, tamburi, porte decorate, travi scolpite. Io ho sempre avuto libero accesso a quel luogo. Da piccolo rimanevo lì delle ore a guardare le facce di miei antenati, le rappresentazioni degli animali e di tutte le divinità della nostra tradizione religiosa. Poi qualche anno fa sono apparsi i primi turisti e accanto alla stanza della memoria – che è diventata visitabile e non più riservata a pochi - è stato creato una specie di negozio dove abbiamo cominciato a vendere sculture e oggetti che gli artigiani più bravi realizzavano durante la stagione delle piogge, quando il lavoro in campagna si fermava a causa del tempo. Mio padre mi diceva che i turisti erano una cosa buona per noi ma non tutti nel villaggio erano dello stesso parere. Ogni volta che iniziava “la stagione” dei turisti, nel Tougunà (letteralmente “la casa della parola”,il luogo dove il capovillaggio riuniva gli anziani per parlare delle questioni importanti) iniziavano delle discussioni animate.
C’è sempre stato un grande conflitto: se da una parte pensavamo che i turisti facessero bene all’economia del villaggio – anche perché ci spingeva a conservare le nostre tradizioni - era anche vero che quella crescente invasione di forestieri ci influenzava negativamente. Molti danzatori del villaggio per lungo tempo si erano rifiutati di mettere in scena la cerimonia del Dama (cerimonia funeraria tradizionale) perché lo ritenevano un insulto verso gli antenati. Ora questo problema non esiste più. Gli islamici, all’inizio solo nel Nord, poi piano piano nel resto del territorio hanno cambiato tutto. I turisti sono scomparsi e molte delle nostre tradizioni e delle nostre cerimonie religiose vengono oggi ostacolate e in certi casi addirittura vietate. Dopo la morte di mio padre nel 2013 le cose sono precipitate e ho dovuto abbandonare il mio villaggio. Il mio amico Domo, anche lui Dogon come me, ogni volta che mi vede lavorare con l’argilla mi dice che sto cercando di salvare la memoria del mio villaggio.
Ama, raccontami del tuo arrivo in Italia e di quando hai iniziato a creare le tue opere.
Sono arrivato in Italia nel mese di maggio del 2016. Non avevo nessuna idea di cosa il destino avesse in serbo per me. Pochi giorni dopo il mio sbarco sulle coste siciliane sono stato trasferito in un centro di accoglienza nel nord Italia. L’organizzazione che lo gestisce si chiama Pacefuturo. La mia più grande sorpresa è stata trovare nella casa dove ero alloggiato una piccola stanza con pavimento di sabbia, disegni alle pareti e numerose figure modellate in argilla create da altri che erano passati da lì prima di me. Mi è stato detto che si trattava di una RCB (Refugee Creative Box), uno spazio sperimentale a disposizione dei rifugiati per ritrovare se stessi attraverso la pittura, la scultura con argilla o l’uso di altri materiali. Quel luogo è stato per me subito molto importante. Potevo andare quando volevo e vi ho trascorso notti intere a dipingere con i colori ad acqua immagini di danzatori, vedute del mio villaggio, scimmie, serpenti, leoni. E le ho appese ai muri. Circondato da immagini della mia gente mi sono sentito di nuovo protetto.
Poi ho iniziato a dare forma alle prime figure in argilla, all’inizio piccole, poi sempre più grandi. Ho provato grande emozione nel vedere davanti a me sculture simili a quelle che avevo ammirato da piccolo nella casa della memoria. Lavorando l’argilla sentivo nascere dentro di me i racconti di mio padre, le descrizioni dei personaggi famosi del nostro villaggio: Baso, l’anziano guaritore oppure Asama, l’infallibile cacciatore e subito cercavo di dare loro forma. In pochi mesi ho trasformato quella stanza in una nuova casa della memoria, il tavolo e le mensole erano piene di sculture. Così mi hanno trasferito da un’altra parte dove mi hanno dato uno spazio ancora più grande, tutto per me, fornendomi anche nuovo materiale e grandi tavoli per lavorare.
Anche qui, come nel mio villaggio ai tempi dell’arrivo dei turisti, c’è molto interesse per le cose dei Dogon. Ricevo spesso visite di persone che mi fanno molte domande e qualcuno ha anche voluto comprare una delle mie opere. Ho vissuto mesi di incertezza perché non sapevo se sarei potuto restare in Italia ma modellare l’argilla mi ha aiutato. Nel mese di novembre del 2017 Pacefuturo ha voluto riunire in un luogo tutti i lavori fatti da quando sono in Italia e tante persone sono venute per guardarle e ho avuto molti complimenti. Sto imparando a conoscere questi modi di fare strani che appartengono alla vostra tradizione. Ora i miei lavori si possono vedere anche su adhikara. Nonostante tutte queste belle esperienze ho spesso sentimenti di nostalgia e di mancanza che cerco di bilanciare come posso, per esempio pensando a quanto sono fortunato. Così riesco a guardare avanti con fiducia.
Quali sono i tuoi progetti per il futuro?
Ora che mi è stato riconosciuto il permesso di soggiorno sono più rilassato. Tra pochi mesi lascerò il campo ma sinceramente non ho ancora un’idea precisa su come muovermi. Studio l’italiano e continuo a lavorare nell’atelier. Mi piacerebbe stare in Italia, quello sì. Appena avrò l’occasione voglio andare via da qui, esplorare il vostro paese e incontrare, e conoscere, altre persone come me che amano dipingere e modellare l’argilla. Al tempo stesso voglio continuare a raccontare le storie dei miei antenati mostrando le mie opere. Sono molto riconoscente verso le tante persone che mi hanno aiutato in tutti questi mesi, a tutti loro va il mio grazie.
Un particolare ringraziamento a Suliman per la traduzione, a Deborah Lugli e a Fabio Pettirino.