“Queste opere non sono state mostrate al pubblico da più di settant’anni, e oggi ricompaiono come per magia, come uscite da un altro mondo”. Con queste parole Marc Restellini, curatore della mostra Modigliani, Soutine e gli artisti maledetti. La collezione Netter dà il senso all’esposizione che si apre il 21 febbraio nelle sale di Palazzo Reale di Milano.
Più di 120 le opere in mostra per ricostruire il percorso di questi artisti che vissero in un periodo affascinante della storia dell’arte nel quartiere di Montparnasse agli inizi del ‘900: Modigliani, Soutine, Utrillo, Suzanne, Valadon, Kisling e molti altri.
Modigliani era sbarcato a Parigi nel 1906 sentendo che quello era il posto dove avrebbe potuto “salvare il suo sogno”. Va a vivere a Montparnasse che, in quegli anni, diventa il quartiere degli artisti; non solo pittori, ma anche scrittori, come Hemingway e Miller, intellettuali come Jarry e Cocteau, rifugiati politici come Lenin e Trockij. I luoghi di incontro sono le trattorie a buon mercato e le bettole-cantine in cui si tira tardi parlando di arte e politica e non di rado le discussioni terminano in risse. Le condizioni di vita sono per tutti assai misere, ma è il fuoco sacro dell’arte, la consapevolezza che le loro opere stanno cambiando per sempre i canoni estetici, a dare la forza a Modigliani e compagni di andare avanti. Se l’Impressionismo, pur avendo apportato una rivoluzione nel modo di dipingere, non usciva in fondo dai canoni del naturalismo, con i lavori di Modigliani, di Soutine, di Utrillo, l’arte diventa autonoma dal soggetto ritratto e dalle tradizioni culturali e artistiche dei paesi di provenienza dei singoli artisti, generando la prima vera rivoluzione nel mondo dell’arte e il ribaltamento dei canoni sino ad allora conosciuti.
È in questo contesto - che di lì a poco verrà definito bohémien - che, come scrive il curatore Marc Restellini: “Questi spiriti tormentati si esprimono in una pittura che si nutre di disperazione. In definitiva, la loro arte non è polacca, bulgara, russa, italiana o francese, ma assolutamente originale; semplicemente, è a Parigi che tutti hanno trovato i mezzi espressivi che meglio traducevano la visione, la sensualità e i sogni propri a ciascuno di loro”. _E ancora: _“Quegli anni corrispondono a un periodo d’emancipazione e di fermento che ha pochi eguali nella storia dell’arte. Ovunque in Europa era in corso una rivoluzione estetica, preludio a un’evoluzione dei costumi; ed è a Parigi, ‘l’unico luogo al mondo in cui la rivolta ha il diritto di cittadinanza’, prima a Montmartre e poi a Montparnasse, che quegli artisti – tutti ebrei – si sono ritrovati per tentare la sorte”.
Ed ebreo era anche Jonas Netter, una figura importantissima per gli artisti in mostra, senza il quale molti tra loro non avrebbero avuto di che vivere e sostentarsi: il percorso espositivo mette a confronto i capolavori acquistati nell’arco della sua vita da Jonas Netter, che, affascinato dall’arte e dalla pittura, diventa un amateur illuminato e acuto riconoscitore di talenti, grazie all’incontro col mercante d’arte e poeta polacco Léopold Zborowski, anche egli ebreo. Netter conosce Modigliani, Soutine, Utrillo ed entra in contatto con Valadon, Kisling, Krémègne, Kikoïne, Hayden, Ébiche, Antcher e Fournier. La loro produzione lo affascina e lo spinge a sostenerli generosamente e a comprare dal mercante i loro lavori: egli diventa quasi un “mecenate”, ispirato e geniale insieme tanto che, quando Modigliani è costretto a trasferirsi in Costa Azzurra a causa di problemi di salute, compra dal giovane italiano abbastanza tele da permettergli di affrontare il viaggio, durante il quale poi l’artista lavorerà intensamente.
Di Modigliani Netter ammira l’originalità del genio creativo, ama profondamente i suoi volti femminili stilizzati su lunghi colli affusolati, come Elvire au col blanc (Elvire à la collerette) del 1917-18 e Fillette en robe jaune (Portrait de jeune femme à la collerette) del 1917, entrambi esposti insieme a Portrait de Zborowski del 1916 e Portrait de Soutine, anch’esso realizzato nel 1916 dopo l’incontro tra i due artisti che stringono una solida amicizia, al punto che è proprio Modigliani a presentare a Netter Soutine. Di Chaim Soutine sono esposti in mostra oltre venti olii – una vera e propria mostra dentro la mostra – tra cui L’Homme au chapeau, L’Escalier rouge à Cagnes e La Folle.
Allo stesso modo Netter scopre i quadri del cosiddetto periodo bianco di Utrillo, soprattutto vedute, tra le quali in mostra Place de l'église à Montmagny, Église de banlieu e Rue Muller à Montmartre. Netter decide di proteggere questo eterno fanciullo disincantato, preda sin dall’adolescenza dei fumi dell’alcool, innamorato della madre, Suzanne Valadon, valente e originale pittrice, anche ella presente con le sue opere in mostra, come Ketty nue s'étirant o Église de Neyron.
Se oggi noi ammiriamo questi lavori come capolavori assoluti dell’arte, non dobbiamo dimenticare tuttavia che all’epoca in cui videro la luce venivano considerati veri e propri obbrobri. È per questo che l’intuizione di Netter appare una vera e propria profezia, oltre che un atto coraggioso e spesso disinteressato. Poco si sapeva di quest’uomo tale era la sua discrezione. Oggi, grazie al lavoro di ricostruzione di Restellini, possiamo farci un’idea del suo volto grazie al ritratto che gli fece, riconosciuto da vecchie fotografie familiari, Kisling, anch’esso in mostra. E la leggenda vuole che sia stato proprio Modigliani a presentare Kisling a Netter. A causa del suo atteggiamento così discreto, di Jonas Netter non rimane nulla di personale. Tranne le opere che amò e collezionò e che anche noi oggi possiamo contemplare.
Amedeo Modigliani (Livorno 1884 – Parigi 1920) E’ indubbio che la fortuna di Modigliani iniziò il giorno dopo la sua morte. E che in vita, non ebbe mai quel consenso e riconoscimento del suo stile che aveva sempre cercato. Se gli scatti di collera, le liti, le ubriacature e le altrettante gentilezze, la sua aurea di ebreo italiano colto, dai bei modi e dal grande charme, erano diventati il suo marchio tra artisti, collezionisti e amici, erano anche il segnale di una ricerca e un’intensità protratta allo stremo. Avrebbe potuto forse condurre un’esistenza appena più decente se avesse seguito la moda e i consigli di Zborowski che lo spinge a ritrarre paesaggi. Un giorno Modigliani urla a Diego Rivera, di fronte a un attentissimo Picasso: “Paesaggi! Ma non farmi ridere, il paesaggio non esiste”. Sembra che Zborowski entri in contatto con Modigliani a una mostra in una strana galleria, intitolata “La lyre e la palette”. Gli artisti esposti, oltre Modigliani erano Kisling, Matisse, Ortiz de Zarate, Picasso. Secondo altre fonti sembra che a presentare Modigliani a Zborowski sia stato Kisling o la moglie del pittore Foujita. Zborowski crede nell’opera di Modigliani e ne prende subito a cuore le sorti, addirittura mettendogli a disposizione casa propria per dipingere dal momento che Modigliani non ha nemmeno un alloggio suo. Spesso mangia anche lì. Paulette Jourdain, una ragazzina che frequenta la casa e che poserà anche per Modigliani, scrisse che per nessun altro artista Zbo, come veniva chiamato familiarmente da Modigliani, affrontò un’incredibile quantità di sacrifici. Ma è grazie all’aiuto di Netter se nel 1915 Zborowski ottiene l’esclusiva delle opere di Modigliani anche se i tre formalizzano un contratto solo nel 1919. Quando Modigliani è troppo stanco e malato, Zborowski organizza un soggiorno in Costa Azzurra e questo sempre grazie ai danari di Netter. E sempre grazie ai due se Modigliani, dopo dieci anni che era arrivato a Parigi, ha una vera casa. Zborowski organizza la sua prima mostra personale, che però chiude ancora prima di aprire. Non si scoraggia e nel settembre 1919 espone alla Hill Gallery di Londra dieci tele di Modigliani. La mostra ha un discreto successo, con critiche positive e la vendita di alcune opere. Ma a Parigi Modigliani non è capito, tranne in casi del tutto eccezionali come appunto quello di Netter. Nonostante i problemi di salute, la tubercolosi che lo attanaglia, nonostante molti dei suoi amici stiano cominciando a vendere ed essere riconosciuti, nonostante abbia trovato l’amore della vita e sia diventato padre, Modigliani continua a dipingere con una determinazione che sfiora l’eroismo o l’incoscienza fino alla morte a soli 36 anni. E’ Kisling che paga l’ultima dimora di Modigliani, mentre Zborowski fa fortuna con le opere del suo protetto, ma la sua fine è in miseria, stroncato da una polmonite a 43 anni.
Maurice Utrillo (Parigi 1883 – Dax 1955) Casupole, muri screpolati, mulini a vento, palizzate, alcuni tetti di zinco, altri di paglia. Sono i paesaggi che Utrillo fissa nelle sue tele. E per le impervie viuzze del quartiere di Montmartre, cupo e selvaggio si aggira, salendo a fatica, anche il pittore che vive con la madre Susanne Valadon della quale alcuni dicono sia innamorato. Nato nel 1883 e riconosciuto da un giornalista spagnolo con cui Valadon aveva avuto una relazione, Utrillo da piccolo è affidato alla nonna che, terrorizzata dalle sue crisi epilettiche, cerca di calmarlo con il vino, rendendolo alcolizzato. Tornato dalla madre, questa cerca di curarlo con la “terapia della pittura”. Nascono così i suoi lavori che sono tra le raffigurazioni più toccanti di Montmartre e dei quartieri limitrofi, Montmagny e Pierrefitte, alcune delle quali esposte in questa sala. Ma la pittura non lo salva: nella fase più acuta del suo alcolismo arriverà a bere l’acqua di colonia e la trementina usata per stemperare i colori. Stringe una forte amicizia con Modigliani. I maligni asseriscono che è il vino a unirli, ma Amedeo che, pur avendo un’intelligenza superiore, vede in lui la sua stessa difficoltà ad affrontare le difficoltà di ogni giorno. Non si arrabbierà mai con lui nemmeno quando Utrillo, mentre è addormentato, vende i suoi vestiti per due bottiglie di vino. Anche Netter manterrà con Utrillo una relazione amichevole e pagherà spesso anche i suoi tentativi di disintossicazione. La vita di Utrillo, arrivato insperatamente a 72 anni, e nonostante il successo dei suoi lavori, è tragica. Disprezzato perfino dalle prostitute del quartiere che lo chiamano “Le fou de la Boutte” e dai bambini che gli affibbiano il nomignolo di Litrillo, si rinchiude in casa quarantenne a giocare con un trenino elettrico regalatogli dalla madre. Negli ultimi anni della sua vita solo un’infatuazione mistica lo salva dal delirium tremens.
Suzanne Valadon (Bessines 1865 – Parigi 1938) E’ il gennaio del 1920. A Modigliani restano pochi giorni di vita. Entra in un ristorante si avvicina a un tavolo dove siede Suzanne Valadon e chiede di potersi sedere accanto a lei perché: “è la sola donna che possa scusare persone come me”. Si appoggia alla sua spalla e comincia a intonare il quaddish, la preghiera funebre della tradizione ebraica, forse presago di ciò che lo aspetta. Suzanne è in compagnia di altri artisti tra cui il marito André Utter, di vent’anni più giovane di lei e amico del figlio. Nell’ambiente degli artisti vengono definiti la trinità maledetta. La Valadon lo amava molto perché per lui lasciò il marito Paul Mousis, ricco agente di cambio che le aveva permesso di lasciare il suo lavoro di modella e vivere un’esistenza agiata. Valadon, di umili origini, era diventata modella a 15 anni col nome di Maria (il nome di battesimo è Marie-Clémentine), posando per svariati pittori. Di una bellezza radiosa, di statura minuta ma con un corpo voluttuoso, diventa l’amante di molti pittori per cui posa, come Puvis de Chavannes o Renoir. Henri Toulouse-Lautrec se ne innamora follemente. Torturato dalla gelosia, perché la donna continua a mantenere relazioni con altri artisti, Toulouse-Lautrec la paragona alla Susanna biblica, concupita dai due vecchioni che la sorprendono al bagno. Maria non si scompone, anzi adotta il nome di Suzanne. Incoraggiata da Toulouse-Lautrec inizia a realizzare disegni e pastelli, ascoltando e osservando i pittori per i quali posa. Dopo la parentesi matrimoniale, spinta da Utter, uomo pieno di dinamismo, che la stimola, si dedica esclusivamente alla pittura e raggiunge la piena maturità del proprio stile. Il suo periodo più produttivo – di cui il collezionista Netter riuscì ad apprezzare l’importanza – si colloca tra gli anni Venti e i primi anni Trenta, quando le sue opere vengono esposte nelle più importanti gallerie e la sua fama si espande anche all’estero.
Chaim Soutine (Smiloviči 1894 – Parigi 1943) Sorpreso a tratteggiare a carboncino il ritratto del rabbino del villaggio in Lituania in cui è nato, viene picchiato con tale durezza da finire all’ospedale perché per gli ebrei osservanti è vietato riprodurre immagini. Questa è solo una delle tante violenze subite da Soutine in giovane età. Le numerose punizioni dei genitori lo rendono pazzo di terrore, finché decide di andare a Parigi, raggiungendola a piedi e arrivandovi sporco, infestato dai parassiti, con un odore da selvaggio che conserverà per tutta la vita, al punto che Chagall diceva facesse davvero schifo. Scopre la vasca da bagno quando ormai è ricco e affermato e solo grazie all’insistenza della sua amante. E’ Krémègne, scampato come Soutine ai pogrom russi antisemiti, che lo presenta a Modigliani che lo prende a benvolere, gli insegna a soffiarsi il naso nel fazzoletto e non nella cravatta e lo presenta a Zborowski che crede però ben poco nel suo talento e gli paga in ritardo il mensile che gli è dovuto. Ma la sua pittura piace molto a Netter: le opere dell’artista lituano costituiscono il nucleo principale della sua collezione. Nel 1919 Soutine, pieno di debiti, vuole suicidarsi. E’ Netter che lo aiuta, liquidando i creditori. La vera fortuna di Soutine inizia con l’arrivo a Parigi del ricchissimo collezionista americano Albert Barnes, che alla fine del 1922 si entusiasma alla scena dell’arte europea. Torna negli Stati Uniti con settecento opere di artisti dell’ultima generazione. Soutine fa la fortuna di Barnes, procurandogli fama internazionale; Barnes, che si appassiona alla sua pittura, ribalta il destino di Soutine, il quale, all’improvviso, accede alla gloria diventando ricchissimo: il miserabile pittore che Zborowski trovava repellente si trasforma in un raffinato dandy. A distanza di anni, quando Modigliani era morto da tempo ed era ormai famosissimo, Soutine a chi gli parlava di lui soleva rispondere: “Non mi parlate di quell’italiano che mi ha quasi fatto diventare un alcolizzato”.
Moise Kisling (Cracovia 1891 - Sanary-sur-Mer 1953) Ebreo polacco di Cracovia, Kisling arriva a Parigi nel 1910 nemmeno ventenne. Va a vivere nello stesso stabile di Zborowski e pare che sia stato lui a presentare Modigliani al mercante. Pieno di energia, di un’allegria contagiosa e di una generosità assoluta, Kisling conduce una bella vita, ma tutte le mattine alle otto, quando arriva la sua modella, è pronto a mettersi al lavoro. Si fa notare per certe sue stranezze, sempre simpatiche. Un giorno, la pittrice Marevna lo trova con un cero in mano, nel pieno di una veglia funebre: il defunto era il suo gatto, morto per aver inghiottito un tubetto di pittura bianca. Florent Fels lo descrive com’era a quel tempo: “Scontroso per autodifesa ma generoso per natura, così bello da far girare la testa alle donne al suo passaggio, ci incantava col suo ottimismo aggressivo, con i suoi ingressi a effetto nei locali eleganti, col suo côté di ‘uomo primitivo’, grazie al quale anche le donne più raffinate da lui ritratte – Colette de Jouvenel, Falconetti, Valentine Tessier, Arletty, Madeleine Sologne – accettavano con indulgenza le “libertà” che egli si prendeva. Forse è per questo che Modigliani non consente a Beatrice Hastings di posare per lui. Allo scoppio della prima guerra mondiale si arruola nella legione straniera. Riformato per una grave ferita, ottiene la cittadinanza francese. La sua carriera artistica prende il via in quegli anni. Si sposa, ha due figli, scappa in America con l’avvento nel Nazismo. Torna poi in Francia e muore il 24 aprile 1953 a Sanary-sur-Mer. Nei suoi Souvenirs, Kiki, la famosa modella e regina di Montparnasse, che ha posato spesso per lui, lo ricorda con Foujita e Youki (Lucie Badoul), Derain, Desnos, Fernande Barrey, Man Ray, Pascin, Lucy Krohg e molti altri: “Kisling con le sue camicie alla Tom Mix e sua moglie, che ha la risata più allegra di tutta Parigi. È stato il talento di tutti questi amici a fare Montparnasse”,
Maurice de Vlaminck (Parigi 1876 – La Tourilliere 1958) Nasce da genitori musicisti ma si dedica alla pittura. Diventa grande amico di Derain, ma al contrario di lui, aborre la guerra. Adora andare in bici, ha sempre con sé una pipa di legno e dipinge con colori gioiosi nonostante la povertà. È tra i fondatori del fauvismo, anzi dirà: “il fauvismo sono io”. Pochi anni prima di morire confida a un amico: “Ho provato tutto quello che ho potuto affinché un dono di natura desse tutto quello che poteva dare. Ho voluto che mi si conoscesse tutto intero, con le mie qualità e i miei difetti. Non ho dissimulato nulla dietro formule, non ho camuffato nulla dietro prestiti, non ho mendicato nulla, non ho rubato nulla”.
Andre Derain (Chatou 1880 – Garches 1954) Un giorno Vlaminck scova in una bar una statuetta africana. La mostra all’amico Derain che, entusiasta, la porta da Picasso. Per qualcuno senza quella statuetta non ci sarebbero state né Les demoiselles d’Avignon di Picasso, né Le grandi bagnanti di Derain. Amico anche di Matisse, Derain è tra gli artefici del fauvismo. Stringe un’amicizia sincera con Apollinaire e con il mercante Paul Guillaume. Partecipa, entusiasta, alla Prima guerra mondiale. La sua fama nasce negli anni Venti e proseguirà fino alla morte, facendo di Derain una delle figure dominanti dell’arte contemporanea. Sul letto di morte chiede a un’amica come ultimo desiderio un pezzetto di cielo azzurro e una bicicletta.
Isaac Antcher (Peresecina 1899 – Parigi 1992) Fu a causa di Isaac Antcher che Netter interruppe la sua collaborazione con Zborowski. Antcher arrivato a Parigi dalla natia Russia, ebreo praticante, fa i più disparati mestieri per mantenersi. Parte per la Palestina, dove vive come pioniere in un kibbutz e studia scultura, ma poi torna a Parigi. I suoi maestri sono “i paesaggisti della scuola di Barbizon, Corot soprattutto, che più di ogni altro conobbe il mistero dell’anima nascosta dentro un albero”. Conosce il successo e la tranquillità economica, ma la crisi del 1930 lo fa tornare ai mestieri umili. Rifugiatosi in Svizzera durante la guerra, rientra a Parigi. Nel 1968 perde l’uso della mano destra ma si sente paradossalmente più libero. Alla morte del padre, torna alla religione diventando un mistico. Solitario, lontano dalle correnti e dalle mode, ha saputo creare un’arte personale e profonda.
Pinchus Kremegne (Žaludok 1890 – Ceret 1981) Krémègne, scampato con Soutine ai pogrom russi antisemiti, presenta l’amico a Modigliani. Appena arrivato a Parigi, si dedica alla scultura, che però abbandona poi per la pittura. Con Kikoïne e Soutine visitano spesso il Louvre e altrettanto spesso trascorrono le serate nelle bettole di La Ruche. Diventa un protetto di Zborowski e nel 1918 soggiorna per la prima volta a Céret, centro del cubismo, dove ritrova Soutine, mandato lì da Zborowski. Conosce il successo, si separa dalla moglie, scappa da Parigi durante la Seconda guerra mondiale e quando vi rientra trova il suo studio intatto. Vagherà tra l’Inghilterra, la Svezia e Israele, farà l’agricoltore e finirà i suoi giorni a Céret.
Henri Epstein (Lodz 1891 – 1944 ca.) Incoraggiato dalla madre, si dedica alla pittura. Arriva a Parigi nel 1913 e si stabilisce a La Ruche, dove rimane fino al 1938. Dopo un debutto sotto il segno dei, di cui mette a frutto le ricerche cromatiche, evolve poi verso un’esecuzione di tipo espressionista. Contribuisce con i suoi lavori a riviste ebraiche. Epstein acquista una fattoria nei pressi di Épernon, nell’Eure-et-Loir, che diventa suo luogo di lavoro e rifugio durante l’Occupazione. Il 23 febbraio 1944, tre agenti della Gestapo lo arrestano a Épernon. Gli sforzi degli amici e della moglie, figlia del pittore Dorignac, per liberarlo sono vani. Viene internato a Drancy e spedito ad Auschwitz il 7 marzo 1944. Come altri milioni di esseri umani non è mai tornato.
Michel Kikoine (Gomel 1892 – Cannes 1968) Grande amico di Krémègne e Soutine, che conosce in patria prima che tutti e tre vadano a Parigi; qui Kikoïne rimane incantato dai lavori di Pissarro e Cézanne che influenzeranno il suo stile. È Modigliani a introdurlo nel mondo dei mercanti d’arte; le sue opere, più delicate e meno accese di quelle dell’amico Soutine, incontrano il gusto della borghesia parigina. Si arruola volontario durante la Prima guerra mondiale. Rientrato a Parigi, la tranquillità economica gli permette di vivere in campagna. Durante la Seconda guerra mondiale si rifugia con la famiglia a Tolosa, a causa delle persecuzioni degli ebrei. Trascorre tutto il 1954 in Israele, dove abbandona il segno espressionista e torna a forme più morbide. Si trasferisce poi a Cannes dalla figlia dipingendo vedute del Mediterraneo fino alla morte, nel 1968.
Henri Hayden (Varsavia 1883 – Parigi 1970) Dopo aver studiato ingegneria a Varsavia, ottiene dal padre di potersi recare a Parigi. Scopre il Louvre e Gauguin ma adora Cézanne. Diventa cubista e attira l’attenzione del mercante Rosenberg, con cui sottoscrive un contratto. Appassionato di musica, fa parte del Gruppo dei Sei. Lasciato il cubismo, si apre per lui un periodo di incertezza e continua ricerca. Firma un contratto con Zborowski. Per sfuggire alle persecuzioni degli ebrei, nel 1940 si rifugia a Mougins, dove ritrova Robert e Sonia Delaunay che lo confortano col loro affetto. Come dirà il suo grande amico Samuel Beckett, “per tutta la sua vita ha saputo resistere alle due grandi tentazioni, quella del reale e quella della menzogna”.
Eugene Ebiche (Lublino 1896 – Varsavia 1987) Come Isaac Antcher, appartiene alla seconda ondata di artisti sostenuti da Zborowski e Netter. Grazie a una borsa di studio parte per Parigi nel 1922, dove rimane fino al 1939. Tornato in patria, inizia un nuovo periodo artistico e di vita. Il percorso di Ébiche si distingue quindi da quello degli altri artisti di Zborowski. Pittore della Scuola di Parigi e cioè pittore d’emozione, ma anche di rivolta e di contestazione, una volta tornato in Polonia, riveste una posizione di artista ufficiale, conservando la propria indipendenza e facendo valere le proprie convinzioni artistiche di fronte a un realismo socialista dogmatico e intransigente.
Jan Waclaw Zawadowski (Jean Zavado) (Skobelka 1891 – Aix-en-Provence 1982) Arriva in Francia all’inizio degli anni Dieci. Si stabilisce a Montparnasse e si integra perfettamente nella comunità degli artisti. Alla morte di Modigliani si installa nel suo studio con la scrittrice Nina Hamnett. Affida allora la vendita dei propri quadri a Zborowski ed è su richiesta di questi che comincia a firmarsi “Zavado”. Compie numerosi viaggi nel sud della Francia e svolge un ruolo attivo nella vita artistica della Scuola di Parigi; è amico di molti pittori, musicisti e scrittori. Espone in Polonia, a Parigi e a Londra. A dargli notorietà sono due retrospettive allestite a Cracovia nel 1975 e a New York nel 1976. Muore ad Aix-en- Provence all’età di 91 anni.
Aizik (Adolphe) Feder (Odessa 1886 – 1943 ca.) Come Epstein anche Feder non tornerà da Auschwitz. Si era rifiutato di fuggire. La moglie, che invece riesce a scappare da Drancy, salva un album di disegni del marito realizzati nel campo di prigionia di Parigi. Arrivato a Parigi nel 1908 Feder frequenta l’atelier di Matisse e va spesso al Café de La Rotonde, dove si incontra con Modigliani, Friesz e Lipchitz. Compie viaggi in Francia e in Palestina. Colleziona arte africana e i naïfs. Nel 1923 pubblica alcuni disegni su “Le Monde” e illustra alcuni libri, in particolare di Joseph Kessel e di Rimbaud. Espone nei maggiori salons parigini, soprattutto al Salon des Tuileries e nel 1912 è nominato membro della Société du Salon d’Automne.
Per maggiori informazioni sulla mostra visita www.mostramodigliani.it