La figura del medico di corte è ricorrente nella tradizione antica. Il primo a esercitarla, in virtù delle sue grandi doti di guaritore, fu Democede di Crotone (VI-V secolo a.C.) in grado prima di ricoprire il ruolo di medico pubblico a Egina e ad Atene, poi di passare a quello di medico privato al servizio prima del tiranno Policrate di Samo, poi del re di Persia Dario I e di sua moglie Atossa.
Se Democede mise al servizio dei suoi datori di lavoro tutte le sue competenze e fu in grado di guarire Dario da una brutta frattura al piede, Atossa da un ascesso al seno, altri medici privati vissuti in epoca successiva non sempre rispettarono l’etica professionale esercitando correttamente la loro professione. Lasciando da parte il caso di Apollonide di Cnido punito con la morte dopo aver deliberatamente trascurato, per dare sfogo alla propria lussuria, la malattia di cui soffriva la nipote del re persiano Artaserse, la tradizione ha restituito i nomi di molti medici di corte in grado, in alcuni casi, di guadagnare meriti agli occhi del loro signore, in altri di configurarsi come dei veri e propri boia.
Filippo di Acarnania, ad esempio, che seguì Alessandro Magno in Asia e ne fu medico personale, una volta curò il suo re da una brutta febbre dovuta a raffreddamento. Nonostante i sospetti sollevati dal generale Parmenione che lo accusava di volere attentare alla vita del sovrano, Alessandro ne accettò la cura e bevve una pozione. In questo modo guarì. Altrettanto fortunato fu l’imperatore Ottaviano Augusto che, colpito da una grave patologia al fegato, poté giovarsi delle terapie prescritte dal suo medico Antonio Musa: questi gli consigliò fomentazioni fredde piuttosto che calde.
Non ebbe la stessa sorte l’imperatore Claudio (41-54 d.C.), alla cui esistenza pose fine sua moglie Agrippina, madre di Nerone, desiderosa di sbarazzarsi del consorte e di favorire l’accesso al trono del figlio. Agrippina, racconta lo storico Tacito (I-II secolo d.C.), ottenne una dose di veleno da una donna di nome Locusta famosa in questo settore. Facendo opera di corruzione Agrippina lo unì a una pietanza a base di funghi, che venne servita all’imperatore dall’eunuco Aloto addetto al controllo del cibo. Il piano fallì a causa di una violenta diarrea che liberò Claudio dal veleno vanificandone l’effetto. Fallito il primo tentativo, Agrippina non si diede per vinta e ne escogitò velocemente un secondo. In questo caso si rivolse al medico di corte Stertinio Senofonte. Questi, contravvenendo al suo ruolo, finse di volere curare l’imperatore favorendo attraverso il vomito l’espulsione dei residui liquidi nocivi. Così quando Claudio ebbe aperto la bocca, immediatamente lo punse in gola con una penna intrisa di veleno: la morte fu istantanea.
Tratto da: G. Squillace, I balsami di Afrodite. Medici, malattie e farmaci nel mondo antico, San Sepolcro, Aboca Museum, 2015