Shakespeare: Riccardo III, atto I, scena I.
Il dramma inizia con un monologo di Riccardo, duca di York, che ricostruisce in breve il contesto storico (è in corso la guerra delle due rose) e poi ci informa dei suoi piani per arrivare al trono d’Inghilterra. Riccardo progetta omicidi e promette di far scorrere sangue a fiumi pur di arrivare al potere, è pronto a uccidere parenti e perfino bambini.
Tutto potrebbe sembrare apparentemente normale, poiché chi ci comunica i suoi piani è in effetti “il cattivo”; ma c’è un piccolo particolare su cui ci dobbiamo soffermare. Riccardo è gobbo, deforme, “plasmato da rozzi stampi” come lui stesso si definisce. Riccardo è tanto deforme fuori quanto lo è al suo interno, la corruzione della sua anima è direttamente proporzionale alla malformazione del suo corpo.
Riccardo non era in realtà gobbo, ed il suo regno, che fu tra l’altro molto breve, non fu né più crudele né più ingiusto di altri. In realtà Shakespeare enfatizzò la deformità di Riccardo per avere un forte effetto drammatico ed i motivi per cui la sua caratterizzazione fu tanto mostruosa risiedono nel fatto che al tempo di Shakespeare regnava Elisabetta I discendente di Edoardo VII che di fatti sconfisse Riccardo III dando vita alla dinastia Tudor. La storia la fanno i vincitori.
Ma per screditare un antico rivale non basta raccontarlo come un malvagio, va trasformato in un mostro. L’alterità, se voluta portatrice di valori negativi è associata spesso alla deformità. Non a caso anche nelle novelle dei fratelli Grimm il personaggio del gobbo è il simbolo della malvagità, del sotterfugio, della cupidigia e dell’avarizia. La deformità diventa un marchio del male.
Nel 1996 nella sezione Un Certain Regard del 49° festival di Cannes, Al Pacino presenta Looking for Richard, un docufilm saggiamente diviso fra la messa in scena di parti del dramma e gli interventi di approfondimento di importanti attori della tradizione Shakespeariana fra i quali Kenneth Branagh e Sir John Gielgud.
Se per alcuni personaggi la deformità è un’amplificazione della loro malvagità, per altri è un limite nella comunicazione del bene. Possiamo prendere in considerazione varie rappresentazioni di “mostri gentili” nella storia del cinema, come gli adattamenti cinematografici di Notre Dame de Paris di Victor Hugo.
Il protagonista, Quasimodo, è un gobbo costretto a vivere lontano dal mondo circondato da orrendi Gargoyles nei quali specchiarsi e solo la zingara Esmeralda riesce ad andare oltre il suo aspetto riscattandolo come uomo. Il film del 1923 di Wallace Worsley con Lon Chaney nel ruolo di Quasimodo o la versione di William Dieterle del 1939 aderiscono all’opera di Hugo e entrambe non tendono a ingentilire le forme di Quasimodo ma piuttosto le estremizzano nella loro deformità.
Altro caso più che pertinente è quello di The Elephant Man di David Lynch con protagonisti Anthony Hopkins e John Hurt. Il film del 1980 è la biografia di John Merrick un uomo afflitto da una grave deformità corporea, realmente esistito nell’Inghilterra Vittoriana. Per il pesante trucco di John Hurt, Lynch ottenne il permesso di prelevare dei calchi dallo scheletro di Merrick conservato nel museo del Royal London Hospital.
Nel film, l’alterità fisica del protagonista è motivo di disprezzo e derisione al punto di condizionarlo e limitarlo nell’esprimere i lati più sensibili del suo animo. La percezione del mostruoso condiziona nel bene e nel male l’uomo elefante e chi lo guarda.
So che batterà forte il cuore a molti che sono cresciuti fra gli anni 80 e 90 citando i Goonies. Le sembianze malformate di Sloth celano un superman inaspettatamente deforme che, come nella migliore tradizione fumettistica, si svela nel momento del bisogno.
In un particolare limbo fluttua la figura di Salvatore, il frate dulciniano interpretato da Ron Perlman ne Il Nome della Rosa di Jean Jacques Annaud.
Qui la deformità del personaggio è creata attraverso l’attribuzione di caratteristiche che ci rimandano a un mondo in cui l’uomo e l’animale sono fusi insieme, ed anche il suo esprimersi bizzarro miscelando in modo sconnesso parole di diverse lingue ad amplificare l’effetto di alterità.
La deformità può incutere terrore, suscitare ripudio o commozione, ma anche far sbellicare dalle risate. Chi di voi non ha riso di fronte all’interpretazione dell’immenso Marty Feldman, l’indimenticato Igor (ma si pronuncia Aigor) del Frankenstein Junior di Mel Brooks? Rispetto ai casi analizzati fino ad adesso, qui l’aspetto deforme amplifica l’effetto comico. Igor è tanto grottesco e fuori da qualsiasi canone da potersi permettere di rompere la quarta parete e guardare in camera comunicando direttamente con lo spettatore.
L’immagine è un contenitore di valori, ma cosa ci racconta l’immagine deforme?
Ci comunica di noi e dei nostri complessi meccanismi di costruire e mettere in scena significati, ed è giusto chiedersi cosa c’è al di là quello che vediamo e quello che noi giudichiamo positivo e negativo, bello e brutto, giusto o sbagliato.
Quindi non lasciatevi ingannare dai Dorian Gray e fidatevi dei Transformers perché c’è sempre molto di più di quello che gli occhi possono incontrare, more than meets the eye.