La figurazione domina la storia dell’arte occidentale. La spiritualità opera su una persistente fisicità delle immagini, seppure investendole di un valore simbolico anche forte e sovente complesso. Dietro c’è la tradizione artistica greco-romana, legata alla ricerca rappresentativa della figura, del corpo umano e delle sue proiezioni. Dietro c’è anche il Concilio di Nicea del 787, che condanna le tendenze iconoclaste a favore del culto delle immagini sacre, cioè, ancora, di figure. Senza il Concilio di Nicea il corso dell’arte occidentale forse sarebbe stato ben diverso, tutto orientato verso astrazione e decorazione, probabilmente molto simile a quello dell’arte islamica.
Figura & Figure. La figurazione nella pittura italiana del Novecento (a cura di Silvia Pegoraro) si propone come una campionatura significativa di 31 artisti del Novecento italiano che hanno seguito la via della figurazione, lungo tutto il proprio percorso creativo o per parte di esso, ognuno segnando la storia dell’arte in modo significativo con la propria impronta poetica e stilistica.
I 31 artisti presenti: Attardi, Baj, Cagli, Campigli, Carrà, Cassinari, De Chirico, Gentilini, Greco, Guttuso, Maccari, Mambor, Marini, Melli, Migneco, Monachesi, Morandi, Morlotti, Mušič, Pirandello, Rosai, Sassu, Schifano, Severini, Sironi, Soffici, Stradone, Tamburi, Turcato, Vespignani, Ziveri.
In un suo testo di presentazione dell’affascinante quanto misconosciuto pittore espressionista italiano Giovanni Stradone, Cesare Brandi scriveva, nel 1982, riferendosi ai primi anni del secondo dopoguerra: “Con tutto ciò cominciava a serpeggiare l’idea che per essere moderni si doveva essere astratti (…) Ma con buona pace di Lionello Venturi, ce ne furono molti che resistettero sulle loro posizioni antiquate, a cominciare da Morandi, da Manzù, da Marino, da Guttuso. A dirlo ora, per orecchi nuovi, sembrerà di pascersi nell’ovvio. E che, non sono proprio attualmente, codesti artisti, fra i maggiori del nostro tempo, fra i più richiesti in tutto il mondo? (…) Ma allora sembrava che gravasse su di loro la pesante nuvola del provincialismo”.
In effetti, quando si pensa all’arte occidentale del XX secolo, generalmente si pensa ai vari “astrattismi” delle avanguardie, mentre permane vitale per tutto il secolo un filone “figurativo” legato alla tradizione classico-accademica, o a quella naturalista o impressionista ottocentesca, o, ancora, a quella espressionista.
Tra il XIX ed il XX secolo, la figura rimane centrale negli interessi degli artisti, rivaleggiando però con l'emergere della pura astrazione. Nell'arco di questo periodo, la rappresentazione del corpo e del volto umano vede radicali trasformazioni: da una crescente franchezza nella sua raffigurazione sotto l'aspetto fisico, a un'intensa esplorazione dei temi psicologici, sessuali e sociali ad esso correlati. In Italia, nel secondo Ottocento, si fanno sentire le stesse esigenze di aderenza a un reale quotidiano, ma invece dell’attimalità irripetibile, del palpito esistenziale che anima i lavori degli impressionisti, si fa strada il “verismo” di immagini elaborate sotto l'urgenza della “questione sociale” allora emersa, nonché delle problematiche relative alla fisionomia storico-politica del nostro paese . Immagini, dunque, risolte dal punto di vista formale attraverso una resa verista delle figure, attingendo ad una poetica che in quel periodo occupava in Italia un posto di primo piano nel dibattito culturale, letterario e figurativo. Ma c’è anche il perdurare di una poetica purista e classicista, che guarda all’accademia e all’arte rinascimentale e pre-rinascimentale.
Nuovi temi entrano di prepotenza nella figurazione artistica italiana, temi che si legano ai problemi sociali o allo sviluppo delle moderne periferie industriali (che troveranno poi in Sironi, nei primi decenni del Novecento, il loro più intenso interprete), o all’evoluzione della società anche sotto l’impulso della comunicazione di massa (che impronterà ad esempio il nostrano espressionismo di Maccari).
“Secessioni” furono definiti i vari movimenti artistici che in fin de siècle si costituirono per manifestare il distacco dei loro esponenti dall’Accademia e dai canoni estetici della tradizione, e dunque una forte volontà di rinnovamento dello stile: deformazione espressionistica della linea e uso antinaturalistico del colore furono alcuni dei fondamenti di questo nuovo gusto estetico.
La Secessione Romana ( a cui partecipa lo stesso Morandi, giovanissimo) nasce nel 1912, e tra il 1913 e il 1916 organizza mostre che hanno anche l’enorme merito di far conoscere in Italia artisti come Renoir, Rodin, Cézanne, Matisse o Klimt, che influenzano notevolmente gli artisti del movimento italiano.
Dopo la seconda guerra mondiale, nel 1946 nasce una Nuova Secessione artistica italiana, divenuta poi “Fronte Nuovo delle Arti”, che mira a coordinare le principali forze del rinnovamento artistico italiano del secondo dopoguerra. Qui il dibattito verteva soprattutto sulla questione del realismo, da molti considerato necessario in quel momento storico, perché un linguaggio artistico chiaro, facilmente comunicabile, lontano dagli sperimentalismi, avrebbe potuto dare un suo contributo all'individuazione dei problemi concreti della società . Tutto ciò non significava il ritorno alla figuratività ottocentesca: il bisogno di modernità si esprimeva col riferimento costante al linguaggio picassiano, del Picasso di Guernica. Agli artisti che facevano capo al “Fronte nuovo delle Arti” - fra i più noti, Guttuso, Turcato, Vedova, Morlotti, Santomaso, Corpora - sembrava quindi possibile operare una sintesi, artisticamente valida e politicamente accettabile, tra le correnti influenzate dall' avanguardia astratta e la versione neocubista (di cui Renato Guttuso era il caposcuola) del neorealismo.
Il desiderio di nuove forme sorto con le trasformazioni sociali degli inizi del secolo porta a radicali ripensamenti sulla figura umana. E' nella prima metà del XX secolo che si compiono, attraverso le ricerche delle avanguardie, le sue più profonde mutazioni. La scomposizione della figura passa attraverso le istanze rivoluzionare del futurismo, cui aderiscono Boccioni, Carrà, Severini, lo stesso Sironi. Dopo l’oltrepassamento del limite rappresentativo da parte dei futuristi, si rientrerà nell’ambito di una poetica dagli esiti neo-classici e neo-antichi, in parte annunciata dalla breve e intensissima avventura della Metafisica: il “ritorno” all’ordine, guidato dalla rivista “Valori plastici” (a cui si legano ad esempio De Chirico, Morandi, Carrà, Soffici e Melli, che ben presto se ne allontanerà) e dal movimento di Novecento, fondato da Margherita Sarfatti, a cui sono variamente collegati pittori come Sironi, Guidi, Casorati. Tra questi, Sironi è indubbiamente quello che più di ogni altro trasforma la restaurazione in una rivoluzione.
Sul versante milanese, importante per gli sviluppi espressionisti della figurazione italiana è il movimento milanese di "Corrente" (1938-1943), nato in reazione all'arte accademica e ufficiale voluta dal fascismo: movimento di fronda, per le istanze rivoluzionarie e antinovecentiste dei suoi aderenti (tra cui Cassinari, Sassu, Migneco, Morlotti, Tamburi) accomunati da un’ansia di apertura nei confronti dell’arte moderna europea, contro l’autarchia e l’isolamento culturale del regime fascista. Dall’espressionismo di “Corrente”, filtrato attraverso l’ossessione costruttiva-decostruttiva di Cézanne, nascono ad esempio le possenti e dissolventi Bagnanti di Morlotti, testimoni di un interesse per il nudo che ha vissuto nei secoli sulla soglia tra convenzione e scandalo, tra eros e aggressività, tra bello e osceno. Ma la lettura espressionista del corpo femminile nell’ambito della pittura italiana del ‘900 trova il suo più geniale interprete in Fausto Pirandello. Circa il tema del ritratto, già Hegel aveva sottolineato come nel ritratto la pittura giunga a rappresentare l’oggetto sommo e più spirituale: l’individuo nella sua essenzialità autenticamente umana. Quando il pittore decide per un ritratto (o un autoritratto) pone necessariamente all’arte il problema dell’identità, del disvelamento di un sé. Si vedano ad esempio gli splendidi ritratti di Roberto Melli, e certi ritratti del primo Turcato (anni 30), prima dell’avvio delle ricerche astratte, dove il volto è l’evanescenza del confine tra soggettività e oggettività, dunque anche manifestazione di una dimensione di “sogno”, come avviene anche – per quanto in modo totalmente opposto – in certi ritratti “immaginari”, ironici e canzonatori di Enrico Baj, trasposizioni giocose del collage dadaista.
Estremamente interessante è la profonda metamorfosi della natura morta in epoca moderna: da genere marginale a cifra interpretativa della realtà, contenente in nuce tutto il pensiero e la cultura di fine Ottocento e del Novecento. Il tema della natura morta si satura di significati, in un’epoca in cui l’arte rivolge un’intensa attenzione all’analisi del proprio linguaggio.
La figurazione italiana del Novecento relativa alla natura morta non è, perlopiù avanguardistica e ideologica, ma sostanzialmente tesa alla ricostruzione di una visione intimistica e lirica, benché problematica e interlocutoria, del dato quotidiano. Le sue immagini ci restituiscono una realtà silenziosa, segreta, intima, lontana dai clamori, immersa nella penombra d’interni borghesi e popolari. Eppure, nelle più belle nature morte, da Morandi a Morlotti, a Stradone, gli oggetti sono fissati nella luce, come in un inesorabile campo energetico che penetra ogni cosa, trasformando le nature morte in paesaggi, e viceversa. Luce che si cristallizza senza però raffreddarsi, come quella che ritroviamo nei meravigliosi spazi crepuscolari dello Ziveri tonalista. Luce, ancora, delicatamente oscillante, impercettibilmente palpitante, sospesa a un impalpabile pulviscolo di colori tenui, poveri, impareggiabili: luce che avvolge, come un vellutato incubo, i cavallini e le colline di Anton Zoran Mušič. Ma la luce può anche non essere leggera e immateriale: può essere greve e densa, identificarsi con l’ombra, e con la materia stessa, che sostanzia i corpi delle cose. Ecco allora la terribile concisione dei bianchi e dei neri, degli ocra e dei bruni di Mario Sironi, le terre e i verdi marci di Morlotti, che portano l’immagine in una dimensione primordiale e atemporale. O il continuo trapasso di ombre e di luci nelle periferie di Renzo Vespignani, che sembra diissolvere i colori, conferendo alle immagini un carattere spettrale.
Il senso della fine dell’esperibilità della natura, al di fuori della mediazione tecnico-scientifica o delle rappresentazioni dell’immaginario consumistico - sempre più evidente dal secondo dopoguerra ad oggi - si accompagna a uno spostamento del senso - e dell’indagine sul senso - dello spazio. Proprio nel recupero di un’immagine della natura, e insieme nella consapevolezza della sua non-univocità e della sua inevitabile quanto paradossale anti-referenzialità, sembra fondarsi la forza di molta “pittura di paesaggio” degli ultimi quaranta-cinquant’anni : una ricerca sul paesaggio che sfida la facile e irenica “oleografia” della natura di cui parlava Musil, salvando la natura nello spazio dell’interiorità, come ad esempio quella di Morlotti, che si volge a un "neo-naturalismo" materico assai vicino alle ricerche dell’Informale europeo; oppure prendendo coscienza, talora con sferzante ironia, dell’“impossibilità” del paesaggio nell’epoca contemporanea, così come ha fatto, ad esempio, Mario Schifano, facendo deflagrare l’intrigante paradossalità del paesaggio mediato dall’immagine televisiva, oppure Renato Mambor, trasformando i motivi naturali in motivi decorativi.
Se parliamo invece del rapporto dell’arte del Novecento con l’antico e con il classico, De Chirico costituisce un punto di partenza ineludibile: il classicismo, l’eredità classica antica e l’avanguardia confluiscono nella sua opera, per sua stessa definizione enigmatica, in modo estremamente originale e ambiguamente eversivo. Il rapporto tra antico e moderno - tra tradizione e innovazione - diventa così un valore, appunto, eversivo, e il classico non è ormai la forma immutabile, ma la forma che si presta a infinite interpretazioni, metamorfosi e contaminazioni. Collegato a questo, e spesso ad esso strettamente intrecciato, è il sentimento del “classico” come di una corrente sotterranea che si lascia cogliere ormai genuinamente solo come elemento misterioso ed enigmatico, piega nascosta nel tessuto culturale della modernità. E’ il caso del “fantasma” dell’arte etrusca nell’arte di Campigli, nelle sue forme essenziali, praticamente sottratte a ogni evoluzione stilistica, figure identificabili essenzialmente con le sue famose figure femminili stilizzate, ripetute quasi all’infinito. Un fenomeno analogo è riscontrabile nella ricerca artistica di Marino Marini, rivolta all'instaurazione di una forma“pura”, mediante il recupero e la rielaborazione in chiave moderna della tradizione etrusca e medioevale: l tema del cavaliere, quasi ossessivamente ricorrente nella sua opera, è una sorta di segnale simbolico della sua personale visione del mondo.