Ad Arezzo, nello spazio espositivo di Via Cavour 85, dal 14 giugno al 12 luglio è ospitata la personale dell’artista californiano Walter Erra Hubert, dal titolo within/without, curata da chi scrive e da Danielle Villicana D’Annibale.
Per introdurre l’opera di Hubert mi piace riportare una delle frasi del libro di aforismi dell’artista tedesco Caspar David Friedrich che afferma:
“Il pittore non deve soltanto dipingere ciò che vede davanti a sé, ma anche ciò che vede in sé. Se però in sé non vede nulla tralasci pure di dipingere ciò che vede davanti a sé”.
E’ una dichiarazione programmatica che potrebbe sembrare piuttosto insolita, e anche remota, nel presentare una ricerca pittorica tangibilmente e saldamente inserita nella scena contemporanea, perché richiamando il grande artista visionario vissuto due secoli fa sembrerebbe dover percorrere una grande distanza per avviare il nostro discorso.
Ebbene, a ciò si potrà facilmente rispondere che è privilegio dell’arte ridurre le distanze, esistono fili invisibili che uniscono artisti di secoli tra loro distanti e di distinti linguaggi, artisti che, calati nella propria epoca, manifestano un proposito comune, una comunione di intenti, una sensibilità affine di fronte all'immensità del cosmo: nelle loro opere riflettono il respiro dell’universo - tra umano e divino - travalicano tempo e spazio. L’arte ha questo potere e il titolo della mostra, within/without, che risuona nel rendere esplicita la presenza del dentro e del fuori, si pone come palese indirizzo di lettura dell’opera di Hubert, nella quale si rivela una ricerca che in altri tempi si sarebbe definita “poetica del sublime”.
Prima di introdurci nella sua dimensione artistica, è opportuno evidenziare, per una panoramica complessiva, l’ampia attività che, parallelamente all'esercizio della pittura, lo ha qualificato negli anni e che si manifesta, dopo aver frequentato gli studi artistici - laurea all’Otis Art Insitute of Art and Design di Los Angeles – già a partire dalla fondazione di Silver Birches, compagnia della quale è anche direttore creativo.
Da oltre quarant'anni infatti, lavora come concept artist, designer e scenografo, curatore di eventi per prestigiosi brand internazionali, dispiegando un continuum operativo che va dalla consulenza, all'ideazione e progettazione ambientale, rivelando una smarcata potenzialità immaginativa.
Un’attività professionale di successo nella quale, sviluppando nuovi percorsi legati alla produzione di beni estetici, interpreta, pianifica, dà forma e corpo alla realtà, riservando però alla pittura l’espressione più “colta” e sensibile alla quale l’artista consegna, in una sorta di rivelazione rigenerativa, una totale libertà di sperimentazione.
Questa libertà fa sì che Hubert possa concepire e manifestare la ricerca pittorica come viaggio iniziatico di conoscenza, nel suo significato più puro e profondo: Quest, ricerca di sé stessi - ciò che in altri termini Jung chiama processo di individuazione e che conduce alla realizzazione del sé. Autentico viaggio degno di essere intrapreso, che si svolge nel fuori: percorrendo i giorni e gli anni, attraversando luoghi e paesi, tempo e spazio dell’esistenza, e nel dentro: errando nei territori sconosciuti e nelle remote lande del proprio animo, spinti dall’antico monito scolpito nel marmo del frontone del tempio greco di Delfi: “Conosci te stesso e conoscerai il mondo”.
L’esplorazione di questa dimensione introspettiva che si affaccia sulle “distese interiori del cosmo”, per dirla con Joseph Campbell, immersa negli stati psichici dell’essere e tesa all'identità di soggetto e oggetto, affiora sul confine liminare della tela con un elevato e fluido linguaggio ani-conico, svincolandosi dalla figura, dall’oppressione della raffigurazione mimetica, da ogni condizionamento compositivo. Da questo punto di vista, infatti, l’opera di Walter Erra Hubert trova collocazione nel vasto ambito della poetica dell’informale che nella declinazione linguistica nordamericana si manifesta come espressionismo astratto. Movimento che non nasce compatto ma che si rivela attraverso una sensibilità comune a molti artisti, originata dal desiderio di liberarsi dalle inquietudini del mondo moderno e si caratterizza inoltre per il valore del gesto e del segno, dal rifiuto di schemi e regole precostituite, dalla negazione della ragione ma soprattutto nel portare all’interno della struttura e dell’avventura astrattista la fondamentale scoperta del Novecento: l’inconscio, già al centro dell’automatismo psichico surrealista, termine dal quale non solo l’arte ma tutta la cultura contemporanea non potrà prescindere.
Mentre nell'astrattismo classico, nato in seno alle avanguardie del primo Novecento, la pittura si emancipa dalla figurazione per poter più liberamente e verosimilmente interpretare il reale, comprendendovi anche l’invisibile, nell'informale storico - che deriva dal francese informel e che non significa senza forma ma piuttosto che rifiuta la forma, in quanto considerata ancora come frammento di codice sintattico - si evidenzia una potente capacità eversiva nei confronti del reale resa attraverso la totale volontà di non rappresentazione, di non ricondursi a regole che in qualche modo riproducano la ragione. Ciò nasce dalla sfiducia nella razionalità, a seguito della crisi morale e degli orrori della seconda guerra mondiale; c’è sfiducia nella capacità positivista e illuminista, quello che rimane è l’essenza, il puro atto del pitturare come libero fluire dell’inconscio senza alcuna mediazione, il gesto artistico diventa potente espressione esistenziale: “dipingo dunque sono”. Dipingere è, quindi, un evento ineluttabile, di valore vitale e “resistenziale” che, apparentandosi alla filosofia esistenzialista, diviene azione connaturata all'esistere.
Queste cause soggiacciono, in particolare come aspetto di negazione, alla condizione europea dell’informale, in cui la pittura è corposamente materica, un grido muto, lacerante e dolorante, basti pensare a Fautrier o a Burri, mentre nell'espressionismo astratto statunitense, soprattutto nella forma dell’action painting, prevale l’azione gestuale e il segno dinamico, come in Kline, Motherwell o Pollock, che si manifesta come liberazione delle energie oppresse, ma confida sostanzialmente nel valore salvifico, positivo e costruttivo dell’arte. Nell’action painting, va anche ricordato che la maggiore innovazione, dal punto di vista della tecnica, è rappresentata dall'introduzione dei colori acrilici, largamente adoperati dagli artisti americani che ne amano le qualità materiche e la rapidità di essiccazione. Da questa ampia base formale prende l’avvio anche la ricognizione pittorica di Hubert che, nutrendosi e assimilando negli anni altri lessici stilistici anche di tradizione orientale - come la pittura ad inchiostro giapponese e gli antichi acquarellisti cinesi - si sviluppa secondo un’attitudine propositiva e cognitiva. Non trattenuta da logiche di pensiero, nata dalla viscerale esigenza di spingersi oltre, egli considera la pittura strumento, esercizio di ascesi: la tela è lo specchio segreto che riflette il viaggio dell’anima, si fa mediatrice con l’ignoto, su di essa si accampano le rivelazioni dell’impalpabile, dell’inesprimibile, di presenze intangibili non altrimenti raffigurabili se non empaticamente, come abissali memorie sedimentate nell'inconscio. Stesa sul pavimento dell’atelier, la tela si configura come recinto sacro, viene elevata a luogo metafisico che ha il potere simbolico di annullare tempo e spazio, di circoscrivere il mondo esterno dall'interno, nella quale entra l’artista e si dispone per il rituale dell’evocazione pittorica. Svuotando la mente, entra in una sorta di trance per ampliare la percezione e aprirsi alla visione, avventurandosi in nuove dimensioni e richiamare essenze elementari invisibili che si materializzano nelle stratificazioni leggere di colori sovrapposti, nelle nuances, nelle calligrafie segniche di presenze evocate dal tessuto connettivo dell’universo.
Nelle sottili stesure di materia acrilica si sovrappongono, come reminiscenze stratigrafiche, profonde ombre eteree in nuove relazioni dinamiche, nebulose evanescenti e impenetrabili si insinuano fra esplosioni cromatiche come epifanie cosmiche di nascite stellari, seguendo traiettorie di costellazioni in divenire. La pittura prende vita, guida la mano dell’artista, come medium di antiche entità, come uno sciamano che ha il potere di mettere in comunicazione e penetrare i mondi. Attraverso le visioni, richiama personificazioni di forze ctonie e celesti, eseguendo il rito di trasformazione e di metamorfosi terapeutiche, intuisce altre realtà oltre la cortina del pensiero, percepisce l’unione oltre le apparenze, per fondersi nel tutto, scintilla nell'oceano di luce. Il rapporto tra artista e opera si riflette in una relazione strettissima, come tra inspirazione ed espirazione, che si evidenzia nell'evoluzione dei lavori che scandiscono tre fasi principali.
La prima, nei sei anni che vanno dal 1975 al 1980, in cui inizia il lungo percorso dell’individuazione verso il sé. La consapevolezza dell’arte come uno strumento di crescita viene testimoniata dalla ricerca della Visione che si affaccia nei dipinti che si presentano quale testimonianza visibile e rispecchiano un intangibile lavoro spirituale che procede parallelamente nel percorso di vita: si interessa al buddismo zen, all'apprendimento dell’ikebana, alla conoscenza delle tradizioni orali dei nativi americani. La meditazione, che inizia a praticare in quegli anni, diviene una solida base operativa che affianca all’esplorazione delle tecniche artistiche il cui studio lo conduce al passaggio dall’olio alla pittura acrilica. Ne indaga potenzialità e versatilità, applicandosi alla padronanza dei quattro elementi: aria, terra, fuoco, acqua, ne analizza la diffusione nella notevole quantità di simboli e nelle numerose metafore visuali.
Nel secondo periodo, che va dal 1980 al 2005, si cala più a fondo nell'analisi del sé, percorso introspettivo che viene favorito e guidato anche dalla conoscenza di uno sciamano sudamericano. Scopre i mono printing, a Santa Fe in New Messico, e studia la possibilità di ottenere vari livelli cromatici per generare una pittura più profonda e una texture più intensa, così il lavoro può svilupparsi ulteriormente e rivelare ignote dinamiche spaziali, concentrandosi sull'esplorazione dei quattro punti cardinali.
Nel terzo periodo, che va dal 2005 ad oggi, prosegue nella sperimentazione della pittura acrilica. Infatti il tempo di asciugatura relativamente veloce degli strati sottili consente un’immersione totale nello spazio interno mentre la quiete mentale e l’assenza di volontà gli permettono una maggiore lucidità espressiva. Negli ultimi lavori, l’incursione nell'invisibile si arricchisce di campiture ancor più aeree ed evanescenti, accoglie tracce di fusioni, di liriche velature, di schiumose sfumature, la pittura si converte in un canto cromatico. In questo limbo ancestrale, dove trascolorano indistinte forme preiconografiche, tutto sembra coesistere e accadere nel tempo presente, qui prende forma la coscienza prenatale, qui è celato l’ingresso per l’archetipo, l’originario, qui è la porta per rivivere l’esperienza della creazione che si origina ad ogni istante. L’artista californiano si confronta con termini assoluti e prospetta il superamento della crisi delle poetiche artistiche contemporanee in una visione olistica realizzando una pittura che è connessione simbolica tra gli stati più profondi dell’io e iI viaggio iniziatico dell’eroe per la rigenerazione del suo mondo in crisi.
Alla base di tutta l'arte vi è sempre una trasformazione dell'uomo e così il rito e il mito, sempre più trascurati, hanno invece la fondamentale funzione di offrire simboli che aiutano il progresso dello spirito. Fornire nuove domande alla coscienza e nuove risposte dall'esperienza in un processo di divenire infinito, ecco che cosa si può trarre dalla sua pittura, che trova analogie nella quantistica, perché non portando alla coscienza le visioni della psiche equivale a non essere consapevoli del proprio esistere.
Walter Hubert pone la domanda ad ognuno di noi: se è possibile che i suoi quadri, osservati intensamente quali tangibili reperti di un viaggio affascinante eppure terribile, possano aprirci un varco e spronarci nel viaggio. Questa opportunità è ferma prerogativa dell’arte. Non importa se non siamo addestrati o preparati ad un linguaggio che la mente non riesce a decifrare, questi dipinti non parlano alla ragione, dialogano con la nostra psiche, ma bisogna offrirgliene l’occasione.
Alla conclusione di questa presentazione, può darsi che Caspar David Friedrich sarà quello che ci indicherà la strada:
“Chiudi il tuo occhio fisico, al fine di vedere il tuo quadro con l'occhio dello spirito. Poi porta alla luce ciò che hai visto nell'oscurità, affinché la tua visione agisca su altri esseri dall'esterno verso l'interno”.