Come evidenzia un grande assiriologo italiano, il Prof. Giuseppe Furlani, nella sua opera (cfr. La civiltà babilonese e assira, 1929), la donna mesopotamica rivestiva in Babilonia, e forse anche in Assiria, una posizione alquanto “elevata e libera”, di poco inferiore a quella dell’uomo: essa poteva agire giuridicamente in proprio, senza intervento del marito, padre o fratello, poteva contrarre tutte le tipologie di negozi giuridici, stare in giudizio, adottare, esercitare il commercio, l’industria, l’agricoltura, dedicarsi alla vita religiosa, diventando monaca o sacerdotessa, nel qual caso acquisiva uno status ancora più rilevante rispetto alla donna comune che agiva nella vita privata; non da ultimo, la figura femminile fu sempre di grande importanza nella storia del vicino Oriente anche per quanto riguarda il primario ruolo svolto dalle regine nella gestione degli affari di stato.
Nell’antica Mesopotamia risultavano interessate alle attività finanziarie anche alcune particolari figure femminili, donne imprenditrici protagoniste altresì di una sorta di “micro-credito”, in quanto erogatrici di piccoli prestiti, concessi nell’ambito di una complessiva gestione dei propri affari. Interessante, innanzitutto, l’attività dell’“ostessa”, specificamente menzionata e disciplinata dal Codice di Hammurabi del 1754 a.C. che, all’art. 111, disponeva:
se una mescitrice ha dato a credito un boccale di birra, al raccolto prenderà 5 ban di orzo.
L’antico testo normativo, uno dei primi della storia, prevedeva, pertanto, un “prestito di birra” concesso dall’ostessa, da remunerare all’epoca del raccolto con 5 ban d’orzo (1 ban = 10 sila / litri d’orzo, pertanto 5 ban = 50 sila / litri d’orzo) per ogni quantità erogata con un “boccale” (di cui si ignora, tuttavia, la capacità), con applicazione di un tasso di interesse che sembra alquanto elevato. Certamente, la taverna (o l’osteria) era il luogo di incontro usuale soprattutto per gli esponenti dei ceti rurali, nonché la sede di traffici commerciali di modesta entità, di attività di smercio di prodotti agricoli e di operazioni finanziarie su piccola scala analoghe a quella riportata dal Codice.
Da alcuni testi di Larsa (odierna Tell as - Senkereh, nell’Iraq meridionale) coevi, databili al periodo paleo-babilonese (XX - XVI secolo a. C.), sappiamo che le ostesse avevano un ben preciso inquadramento amministrativo all’interno del quale la loro attività era regolamentata in modo puntuale: per l’esercizio della professione era innanzitutto richiesta l’iscrizione in apposite liste; vigeva inoltre l’obbligo di versamento di una tassa all’ufficio amministrativo della circoscrizione alla quale apparteneva il villaggio in cui era aperta la taverna; l’attività era sottoposta ad una stretta vigilanza a cura del capo del villaggio, eseguita tramite costante monitoraggio e verifica del rispetto delle norme in materia di licenze, pagamento tasse, etc.
L’attività delle ostesse risulta inoltre regolamentata anche da altre due norme delle Leggi di Eshnunna, Città-Stato sita nella Valle del fiume Diyala, affluente del Tigri (nei pressi dell’odierna Ba’quba); tali prescrizioni, del 1800 a. C. circa, disponevano, con un chiaro intento di evitare speculazioni: il divieto per l’ostessa (previsto anche per il mercante / tamkarum) di accettare argento, orzo, lana, olio vegetale, né alcun altro bene, da parte di schiavi (art. 15); l’obbligo per l’ostessa di vendere la birra secondo le quotazioni ufficiali di mercato (art. 41).
Tra le altre donne d’affari, particolare rilievo rivestivano le naditu, (in sumero lukur, letteralmente donna casta, incolta, lasciata non coltivata), termine con il quale si indicavano donne “consacrate” ad una divinità, generalmente non sposate, alle quali non era permesso di avere figli e che, usualmente, risiedevano in un gagum (casa chiusa), una sorta di “clausura” limitrofa alla sede del Tempio di riferimento, assimilabile verosimilmente ad un chiostro o convento.
L’area del gagum includeva, oltre alle residenze delle naditu, anche altri immobili, quali edifici amministrativi, granai, terreni coltivabili, nonché le case del personale dipendente appartenente alle diverse categorie socioeconomiche (ufficiali, scribi, operai / braccianti, domestici, schiavi).
Esistevano diversi gruppi di queste donne, presenti nelle varie città mesopotamiche devote alle singole divinità tutelari: vi erano le naditu di Marduk a Babilonia, le naditu di Ninurta (o Ningirsu) a Nippur e a Larsa, le naditu di Zababa a Kish, le naditu di Samas a Sippar.
La donna naditum non era una sacerdotessa vera e propria, in quanto non si occupava di particolari riti e precetti religiosi, ma sembra che svolgesse comunque una sorta di funzione di “dama di compagnia” del dio, chiamata a contemplare l’immagine della divinità nel Tempio ad intervalli regolari, realizzando in tal modo anche un servizio religioso a beneficio dei membri della sua famiglia grazie alla continua preghiera rivolta a favorire il loro benessere.
In cambio di questa vita tutelata dall’ambiente sicuro e protetto del Tempio, sappiamo che le naditu di Samas (dio del sole e della giustizia a Sippar) pagavano il piqittum, un’oblazione versata in forma alimentare, un’offerta di cibo che veniva portata più volte all’anno al “Tempio bianco” (e.babbar) in occasione delle feste in onore del dio solare; spesso, l’oblazione piqittum veniva corrisposta, almeno in parte, dagli affittuari delle case o dei campi che venivano concessi in locazione dalle naditu, che in tal modo convertivano i fitti (o parte di essi) percepiti sugli immobili rientranti nel loro patrimonio.
Alcune donne naditu provenivano dagli strati più elevati della società, in quanto i loro familiari, padri e fratelli, erano spesso ufficiali di alto rango e funzionari apicali delle Istituzioni statali, giudici, sorveglianti dei mercanti, membri di famiglie benestanti o addirittura esponenti dell’élite reale facente capo ai sovrani di Babilonia: quali figlie di famiglie ricche, esse venivano selezionate e nominate al ruolo di donna-naditum anche al fine di preservare e gestire in modo ottimale l’ampio patrimonio personale e familiare, soprattutto attraverso operazioni di compravendita e/o locazione di case, terreni e schiavi, nonché prestiti di orzo e argento, contratti e transazioni ampiamente attestati dai documenti superstiti.
La donna-naditum di Sippar, antica Città-Stato a nord di Babilonia, sito del moderno Tell Abu Habbah, era di norma proprietaria di svariati immobili, terreni e case, e tra queste ultime, locali commerciali adibiti a negozi ed osterie che, di solito, venivano concessi in locazione ad un canone variabile: ad esempio, la naditum Ribatum, citata in molti documenti contrattuali dell’epoca, aveva affittato un esercizio commerciale su base annuale per 1 solo siclo ed 1/6, circa 10 grammi d’argento da pagare per la metà ad inizio attività; altre locazioni di abitazioni ad uso privato, sempre di durata annuale, variavano da poche frazioni di siclo a 3- 5 sicli, a seconda dell’ubicazione, delle dimensioni e delle condizioni degli immobili.
La studiosa e grande orientalista Rivkah Harris, nel suo libro Ancient Sippar. A demographic study of an old babylonian city (1975), riporta 78 testi in cui la naditum figura come creditore ed in 38 documenti risultano registrati contratti di prestito (25 prestiti d’orzo, 11 prestiti d’argento, 1 prestito d’orzo e datteri, 1 prestito di metallo diverso dall’argento), databili in maggior parte al periodo 1812 – 1712 a. C., risalente ai regni dei sovrani babilonesi Sin-muballit, Hammurabi e Samsu-iluna.
Gli importi d’orzo prestati variavano da 1 sila (circa 1 litro) a 6 gur (circa 1500 / 1800 litri); gli importi d’argento prestati variavano da 1/3 di siclo e 15 se (circa 3,5 grammi) ad 1/3 di mina (circa 170 grammi); il gur (pari a circa 250 / 300 litri di cereale) ed il siclo (pari a circa 8,33 grammi di metallo) erano le misure di capacità e di peso più utilizzate e diffuse nelle transazioni commerciali e nelle operazioni finanziarie, effettuate a quel tempo in derrate alimentari (soprattutto orzo) ed in metalli (soprattutto argento), che fungevano da principali strumenti pre-monetari, configurando una “moneta-merce” di generale accettazione ed ampia circolazione su tutti i mercati dell’antichità.