La pelle d’oca è un meccanismo che qualcuno considererebbe obsoleto. Per certi aspetti diciamo anche che lo è. D’altronde, aveva senso soltanto su una schiena irsuta e pochi umani vantano ancora una simile pelliccia. Aveva senso sulle braccia vellose, le cosce a tappeto e la pancia a zerbino. Ci si ingrossava, una volta, con la pelle d’oca. Per far spavento, diventando all’apparenza più minacciosi, o come protezione immediata dal freddo.
Ma sulla pelle tirata a lucido, la pelle d’oca ha il senso del superfluo. Rimane semmai un indice mal posto di un vecchio automatismo, la perversione di un’espressione che s’ostina a restare. E che ha però il pregio di tenerci ancorati a un tempo profondo, che può prendere il nome di specie, di evoluzione e storia biologica, insomma, di un meccanismo incontrollabile fornitoci da geni. Da qualcuno che non siamo, o non eravamo, pienamente noi. Ma il dilemma rimane quello. Persevera. E oggi, piuttosto che essere sollecitata da quel sistema nervoso simpatico che risponde a stimoli di attacco e fuga e dalle condizioni climatiche, la pelle d’oca si dà piuttosto con una sensazione frizzante, una lieve eccitazione, una risposta – come ogni sensazione – a una sollecitazione ambientale, dove però con ambiente, non si intende esclusivamente paesaggio. O natura. O insomma quei termini che con troppa facilità si confondono, perdendo le rispettive distinzioni. Perché la sollecitazione ambientale di una pelle d’oca può essere il polistirolo, lo stridere del classico gesso sulla lavagna, così come il ronzio di un insetto ma anche qualcosa pronunciato da altri, dal sentimento emerso da una frase al fenomeno YouTube dell’ASMR. Per non parlare poi dei ragni per i massaggi al cranio.
Parlare qui di pelle d’oca, perciò, è un pretesto per parlare d’altro. Ci affidiamo a una piccola incongruenza naturalculturale, a una reazione fisiologica che anche se ha perso nel corso di centinaia di migliaia di anni la sua funzione resta a indicare almeno una cosa: l’irriducibilità di un complesso che nega le differenze tra interno ed esterno, tra corpo e ambiente, tra sguardo e paesaggio, che rende bene l’idea di come quest’ultimo, il paesaggio, sia ciò il francese esprime al meglio: mi-lieu, un luogo nel mezzo. Uno spaziomembrana tra altre membrature. E che di conseguenza, non c’è proprio oggettività nella pelle d’oca. A qualcuno viene per il freddo, ad altri per il polistirolo. Il ché è indicativo anche di un certo rapporto, molto specifico, che dispone l’ambiente all’individuo. Ci verrebbe da citare Jacob von Uexküll, con il suo umwelt e gli ambienti umani ed animali, chiederci cosa sia il mondo e se esista un corrispettivo della pelle d’oca nella zecca – l’animale più fortunato della storia della filosofia novecentesca – o come sia la percezione del paesaggio per un riccio di mare. Di certo siamo sicuri che non è lo stesso per tutti. E qui sta l’impegno nel cercare di comprendere come un paesaggio, un mondo, e le sue correlazioni specifiche tra individui possano incontrarsi.
Rimanendo sulla pelle d’oca, alla sua ostinatezza e alla sua indomabilità, sul pensare il paesaggio come luogo nel mezzo e come espressione di certe sensazioni, potremo dire che questo “paesaggio” è forse l’aspetto di un mondo locale, di un’insularità del mondo tale per cui ciò che mi trovo davanti è in fondo ciò che sono. È risaputa una certa difficoltà nel dimenticare – grande e celebre qualità della mente – i paesaggi della propria infanzia, così come è chiaro che ciò che si apprende lì, tra modi di sentire, di vedere, di annusare, di toccare, addirittura di correre in fondo, siano da pensarsi legate, o quantomeno originate, assieme a un paesaggio.
È qui che si colloca la scelta del titolo della mostra e il piano con cui il lavoro di Edoardo Caimi, Marina Cavadini, Lucia Cristiani ed Edoardo Manzoni viene considerato. Nello sviluppo di una relazione col paesaggio, nel cogliere alcuni automatismi e altri riflessi che si hanno solo nel confronto col complesso di sensazioni dell’intorno e con le sue immediatezze. Perché qui, “paesaggio”, non riconduce a quelle qualità estetiche e geometriche che determinano “regole” della visione, ordinucci normativi – quelli che, con buona pace del Brunelleschi e dell’Alberti, ci portiamo a spasso dal Quattrocento –, ma piuttosto all’idea di una membratura di eventi, da una somma visibile delle relazioni che gli sottendono e con le quali possiamo interfacciarci.
Se guardate il video Deep Moistures della Cavadini, la pelle d’oca è assicurata. A muoversi è proprio un riccio di mare. L’audio è un’ASMR, i peli si alzano, un brivido percorre la pelle. Quella è la relazione, la pelle l’interfaccia, il brivido la sua restituzione, ma sotto sotto ciò che vi sentite addosso è un polistirolo che simula la terra, un pollice che sfrega sulla sua superficie bitorzoluta e lattiginosa ed emula la sensazione del vento. Il complesso è l’ambiente, l’interfaccia, il mi-lieu, il paesaggio. Le nuove Scene di Caccia di Manzoni cancellano ancora i segugi, ma questa volta è lo specchio, il riflesso che è poi quello della macchina canina, quello per cui l’animale-cane viene ridotto a riflessi di caccia. Il paesaggio è qui quello del nascondimento proprio della caccia. Tanto che per gioco tra riflesso e stampa queste Scene sono difficilmente fotografabili, riprendendo così il gioco del nascondimento anche nella manifattura dei lavori. La Cristiani, con Dove ogni cosa resta, lavora piuttosto sulla componente più umana del paesaggio, sulle membrature culturali che s’adagiano sugli spazi e compongono i luoghi, i depositari della memoria. Che qui la memoria è quelli dei fiori di tiglio in un viale di Sarajevo, del volteggio a elica dei fiori, del tappetto di semi e del loro crepitio sotto ai piedi di generazioni. Guardando la felpa di terra di Caimi, si può cominciare pensando che l’umano che veste la pelliccia di lupo è di certo un animale che ha perso il pelo e che lo cerca altrove. L’umano che si veste di terra o è morto o si sta nascondendo. Poiché niente copre come il suolo. Mimetizzarsi, nascondersi fino a che l’individuo sia friabile come la terra. Nient’altro che paesaggio.