“Le immagini non hanno bisogno di parole, di un testo che le spieghi, sono mute, perché devono parlare al cuore e agli occhi”. Coerente con questa filosofia, Henri Cartier-Bresson ( Chanteloup-en-Brie,1908– L’Isle-sur-la-Sorgue, 2004) indiscusso maestro della fotografia del Novecento, ha saputo cogliere il mondo nella sua diversità, semplicità e umiltà, immortalando ogni classe sociale, età e ogni visione della vita per restituirne uno spaccato in bianco e nero. “L’uomo e la sua vita, così breve, così fragile, così minacciata. E non lo stacco dal suo habitat. Bisogna avere rispetto della realtà: per quanto possibile, non “preparare nulla”, semplicemente stare lì, arrivare piano piano a passi felpati per non intorbidire l’acqua”.
È questa la potenza del “click”: “Ho capito all’improvviso che la fotografia poteva fissare l’eternità in un attimo”, cogliere l'istante per sempre, catturare il “momento decisivo” allo spietato scorrere del tempo, slanci visivi di figure dell’epoca che si adattano al presente. E proprio sulla scia di questa continuità che si proietta l’esposizione, “Henri Cartier-Bresson. Le Grand Jeu”, allestita in questi giorni, nelle sale di Palazzo Grassi a Venezia fino al 20 marzo 2021, co-organizzata con la Bibliothèque nationale de France, in collaborazione con la Fondation Henri Cartier-Bresson, prima di volare il 13 aprile 2021 alla Bibliothèque nationale de France a Parigi. Una sfida nuova e inedita- 250 fotografie- per risvegliare la curiosità, proprio come la completa libertà di prediligere alcune immagini, per vedere il pioniere del foto-giornalismo, sotto un’altra luce.
“Le regole del gioco” sono semplici: i cinque autori d'eccezione - Javier Cercas, Wim Wenders, Sylvie Aubenas, Annie Leibowitz e lo stesso Francois Pinault - sono stati inviati a scegliere una cinquantina di foto ciascuno, condividendo la propria visione personale e la propria interpretazione dell’opera di questo incomparabile artista, delle 385 foto della “Master Collection”, che lo stesso Bresson aveva selezionato nel 1973, su richiesta degli amici John e Dominique de Menil. Liberi di decidere i contesti narrativi, le cornici, i colori delle pareti, i cinque esperti, senza conoscere la preferenza degli altri, - con Matthieu Humery curatore generale del "gioco" offrono una mostra nella mostra. Se da una parte, infatti, domina la forza di Cartier-Bresson, dall'altra c'è la responsabilità delle preferenze, il modo di presentarli, come per il collezionista d’arte contemporanea e Presidente di Palazzo Grassi, Francois Pinault, che dispone l’allestimento con cornici neutre per esaltare il periodo bucolico di Bresson.
“L’universalità sensibile e accessibile della sua arte mi ha sempre colpito, ecco perché non ho avuto nessuna esitazione al momento di acquisire la Master Collection, l’insieme, monumentale e intimo al contempo, che offre un panorama eccezionale e commovente delle fotografie di questo artista leggendario”. Per la fotografa Annie Leibovitz, la sua selezione è legata al rapporto con lui, “vedere le opere di Bresson mi ha fatto venire voglia di diventare fotografa”. La sua scelta ricade sulle opere che hanno maggiormente influenzato la sua professione e lasciato un’impronta indelebile nel suo animo. “Per me le più importanti sono probabilmente il ritratto di Matisse e la foto del picnic in riva all’acqua”. Lo scrittore spagnolo, Javier Cercas invece, mette in sequenza le foto di Cartier- Bresson, come i suoi libri: “Le ho ordinate nello stesso modo in cui strutturo i miei libri, ho capito che l’opera di Cartier-Bresson era strettamente legata, e in maniera insperata, ai miei lavori, ai miei interessi o alle mie problematiche di scrittore”.
Il regista Win Wenders, ha cercato di restare cieco il più possibile alla sua “immagine specchiata”, al suo gusto e preferenze. “Le ho messe nell’ordine in cui avevo in mente di disporle sulla parete. Se in principio può sembrare casuale, so, per esempio grazie alle playlist musicali, quanto sia fondamentale la canzone che ascolti per prima, e quale brano ti porta a un altro”. Pone il tutto quasi su un piano cinematografico, con sale buie con in una teca la Leica 1, un video di se stesso, tanto da realizzare un corto di nove minuti con la sua voce narrante. Infine Sylvie Aubenas, direttrice del dipartimento di Fotografia della Bibliothèque de France, mette in risalto il rapporto che Bresson ha avuto con l’Arte, “quest’uomo, innamorato della pittura che nei suoi testi e nelle interviste parla più volentieri di Proust o Cézanne che di fotografia, questo carattere inafferrabile che coltiva con piacere apparenti paradossi, ha costruito un’opera fotografica splendida per leggerezza, empatia, umanità, umorismo e, con la sua Leica incollata all’occhio, ha attraversato oltre quarant’anni del XX secolo e della storia della fotografia”.
“Le Grand Jeu” non è una mostra monografica, quanto piuttosto il confronto tra punti di vista dei curatori, che ci raccontano, in un percorso di cinque esposizioni autonome e indipendenti tra loro, in totale libertà la loro storia, le loro sensazioni e il ruolo che queste immagini possono aver rappresentato per il loro lavoro e la loro vita. Il termine "gioco" del titolo, evoca divertimento e svago, ma può rinviare anche all'insieme di regole, "le regole del gioco" a cui è necessario attenersi. Il singolare progetto, dal carattere enigmatico quanto emozionante, accompagnato da un catalogo in tre lingue pubblicato da Palazzo Grassi - Punta della Dogana in collaborazione con Marsilio Editori, Venezia, contenente testi firmati dai cinque autori, attraversa momenti storici epocali, incontri con grandi personaggi, storie di vita semplice, a tratti dissonanti, come avveniva per i rimbalzi surrealisti, uniti tuttavia da un valore comune, quella dell’emotività. Cartier- Bresson era stato molto vicino al surrealismo, che ha lasciato una traccia indelebile nelle sue opere.
C’è poetica nelle immagini del maestro “dell’istante decisivo”, un marchio di fabbrica che lo distanzia mille miglia da quelle celebri e costruite. È merito dell’empatia, un dono che il grande professionista sfruttava per cogliere l’anima dei suoi soggetti, rubarla e chiuderla in una foto in bianco e nero, nel suo immaginario, tra gli sguardi sulla contemporaneità, il sensibile ordine delle sue forme. C'è l'essenza di un uomo che in ogni posa, racconta una storia di umanità, "la mia Leica mi ha detto che la vita è immediata e folgorante", ma anche quel "gioco" di sguardi che apre la via a una esposizione che, come un "grand jeu" , recita il sottotitolo, è fatta delle scelte. Reporter per eccellenza, tra i fondatori a New York nel 1947 dell’Agenzia fotografica, “Magnum Photos”,( insieme a Robert Capa, George Rodger, David ‘Chim’ Seymour e William Vandivert), trova nell’obiettivo fotografico, veloce e discreto, un mezzo attraverso cui osservare il mondo silenzioso in bianco e nero, ritraendo i momenti più significativi della storia d’Europa: dall’Olocausto, alla Guerra Mondiale.
Viaggiatore insaziabile, con i suoi scatti raccolti in giro per il mondo, con la sua Leica al collo, la fotocamera per eccellenza (35 mm, con ottica fissa 50 mm, di Ernst Leitz), che lui considerava “un’estensione del suo stesso occhio”, ha saputo raccontare, per decenni, con eleganze e puntualità, gli eventi eccezionali: la guerra Civile Spagnola e cinese, l’occupazione nazista in Francia, il muro di Berlino e i funerali di Gandhi. Primo fotografo occidentale libero a cui fu concesso di realizzare foto in Unione Sovietica negli anni della Guerra Fredda. Teorico dello scatto e dell’immediatezza, si meritò l’appellativo di “Occhio del secolo”, per la capacità di cogliere la storia e la vita del Novecento e renderle immortali. “Derrière la Gare Saint Lazare” 1932, la più rinomata istantanea, perché contribuì a creare il mito “dell'istante decisivo”, scattata probabilmente per caso, e caso ha voluto che si realizzasse quella geometria tanto amata dal fotografo “à la Sauvette”, all’improvviso, di nascosto, tra la sorpresa e il click. Quando Cartier-Bresson ritrae questa fotografia ha appena 24 anni. Maneggia una fotocamera solo da due anni, e solo da pochi mesi ha comprato la sua prima Leica. È incerto, tentato da molte strade. La fotografia non è ancora la sua lingua madre: solo una possibilità affascinante, un nuova realtà piena di promesse. Questa foto infatti è leggera come le promesse.
Derrière la Gare Saint-Lazare. Quando la scatta, dunque, si sta divertendo un po’. Accetta con rallegrata disponibilità, l’insegnamento dell’automatismo meccanico. In un giorno umido dietro la stazione Saint-Lazare, una scena intravista gli fa alzare la fotocamera: cerca di incastrare l’obiettivo largo fra i montanti della ringhiera, fissa un pò alla cieca. Porta a casa, stampa, guarda le cose che non ha visto, forse solo intuito: cose che la sua macchina invece ha visto. L’omino buffo, magrittiano, e il suo doppio rovesciato, il tacco che sfiora l’acqua, quasi la tocca, come se ci camminasse sopra; tra un secondo l’acqua schizzerà e sul pelo della pozzanghera s’allargheranno cerchi concentrici; però guarda, i cerchi ci sono già, anticipati dalle forme ricurve di quei detriti in primo piano. Henri Cartier-Bresson non torna mai a inquadrare le sue figure, non vuole apportare alcun miglioramento al negativo, poiché la foto, che per lui è il passaggio dall’immaginario al reale, deve essere giudicata secondo quanto fatto “qui e ora”, nella risposta immediata del soggetto, la accetta o la scarta. Nient’altro. Ha quindi pienamente ragione nell’affermare di non capire nulla di fotografia, che considerava “un’estensione della pittura”, in un mondo, invece, che ha elevato quest’arte a strumento dell’illusione per eccellenza. “Fotografare è mettere sulla stessa linea di mira la testa, l’occhio e il cuore. È un modo di vivere”. Il suo approccio prevedeva di allineare “ testa, occhio e cuore”, e di scattare più immagini possibili, finché dalla massa non ne emerge una in cui tutti gli elementi sono disposti perfettamente e sono capaci di simbolizzare un evento, una persona o un luogo.
La fotografia, in questi anni, guarda soprattutto al cinema. Vuole essere frammento di sequenza, attimo sospeso tra un precedente e un susseguente, taglio sapiente nel continuo spazio-temporale. Alla professione di fotocronista, Cartier-Bresson ha affiancato anche quello di ritrattista e regista. Ha mosso i primi passi nel mondo del cinema come assistente dello sceneggiatore francese, Jean Renoir, figlio del pittore impressionista Pierre-Auguste Renoir. Tra le sue opere più importanti da film-maker ricordiamo, “Le Retour”, documentario del 1946 sul ritorno dei rifugiati di guerra francesi. Proclama inoltre, a gran voce la sua preferenza per determinati pittori, Paolo Uccello, Pierre Bonnard, Matisse, Cézanne, van Eyck, e pone la pittura molto al di sopra della fotografia. Ritrattista ufficiale di personaggi come Albert Camus, Truman Capote, Coco Chanel, Gandhi, Martin Luther King, Henri Matisse, Marilyn Monroe, Picasso, Richard Nixon, Jean-Paul Sartre ed Igor Stravinsky, Bresson è oggi ricordato come uno dei più grandi narratori della società, nel novero dei leggendari maestri, grazie anche a innovazioni ed espedienti tecnici, risultati di grande ispirazione per le generazioni successive.