La mostra presenta 21 preziose stampe che raccontano la passione del fotoreporter Stefano Cigada per l’archeologia e la sua ricerca di far “palpitare” le statue antiche.
Il suo percorso si distingue dalla ricerca di altri fotografi contemporanei e pone l’accento su alcuni particolari delle statue antiche mettendone in risalto le parti danneggiate, ferite ancora vive che possono essere assimilate alla "carne viva".
E' la prima mostra in Italia di Stefano Cigada, fotografo che, dopo anni passati all’estero come fotoreporter in ambito marino, cambia rotta, rallenta, rientra nel suo paese d’origine e inizia a cercare un’altra forma per esprimersi, sempre con la macchina fotografica, ritrovando una vecchia passione per l’archeologia. Le opere di Cigada accompagnano lo spettatore in un viaggio nel tempo e nello spazio insieme al senso preciso di quella frazione di secondo, quando il pezzo di pietra sembra girare, ruotare, sollevare peso, respirare, piegarsi o sospirare.
La ricerca dell’artista diventa un’ossessione: quella di far "palpitare" le statue antiche, arrivate a noi quasi mai integre, come dichiara egli stesso: "Cercando quello che manca, quello che non si vede, cercando l’infinito nel frammento".
Viaggia in tutta Europa, visita i musei per scovare le statue di cui coglie non l’interezza ma la fragilità, mettendo a fuoco la rottura, la faglia, nell’attimo in cui quel particolare "è toccato dalla luce naturale". Le immortala quando vengono colpite da un raggio di sole attraverso una finestra o una porta, le va a trovare in diverse ore del giorno, mese dopo mese, stagione dopo stagione. L’immobilità diviene movimento, la materia fredda del marmo rivive con l’inganno dell’effetto mimetico.
E come Cigada stesso racconta: "Conosco statue ed orari in cui sono colpite dalla luce, con che incidenza arriva la luce secondo il calendario. Ad esempio alla Centrale Montemartini il 27 di settembre una delle mie statue preferite – il guerriero morente del tempio di Apollo Sosiano – è accarezzata per dieci minuti da un raggio di sole. Una settimana prima e una settimana dopo il sole passa oltre, e la fotografia è inutile. Solo durante quei 10 minuti succede qualcosa di magico. E quelli sono i miei dieci minuti, quelli che voglio acciuffare".
Cigada dialoga con le statue, divinità, animali, guerrieri, atleti, ninfe, senza preferenze, scegliendo quelle che gli "parlano" e che lo illuminano. Le fotografa senza cavalletto, senza luce artificiale, con lenti luminose, apertura massima di diaframma e poca profondità di campo. Mette a fuoco il punto il punto di rottura, elevando quel frammento a protagonista mentre tutto il resto sfuma. Cigada consegna questo frammento allo spettatore per riempirlo con un’immagine, percependo molto di più di quel che realmente vede. La magia di questi Frammenti risiede nello strato subatomico della materia: il marmo è vivo, allo stesso modo di piante e animali. Il livello molecolare della pietra, infatti, si muove, magari in modo differente dalle altre specie animate, ma si muove. La luce del giorno, che cambia nel giro di un istante, fornisce una prova del dato scientifico, quasi come una performance.
Cigada va alla ricerca di quell’esatto momento, che carpisce dopo innumerevoli prove ed errori: la sua ossessione permette allo spettatore di assaporare la fugace ma palpabile evidenza di una materia viva, che respira.
Stefano Cigada è definito dalla curatrice Jill Silverman van Coenegrachts un amateur. Come il British Conceptual artists ART & LANGUAGE ha scritto in diverse occasioni "vogliamo essere dilettanti, perché la qualità che rende interessante un amateur è la sua vulnerabilità, l’apertura di pensiero verso l’argomento in questione. L’amateur affronta il lavoro senza pregiudizi, con occhi spalancati e mente priva di preconcetti. Partendo da questo, con un po’ di fortuna, realizza qualcosa di completamente nuovo".