Sturtevant Sturtevant è la prima mostra personale in un’istituzione pubblica italiana dedicata a Sturtevant (1924-2014), una delle più influenti artiste del XX secolo. Fin dal suo titolo, in cui il nome dell’artista è ripetuto due volte, la mostra si articola intorno al concetto e alla pratica della ripetizione, intesa come dispositivo collettivo, in cui l’unicità del soggetto si confronta con altre possibili personalità. In questo senso Sturtevant è forse la prima vera artista del XXI secolo, che nella ripetizione di opere di altri artisti ha pionieristicamente esplorato – negli ultimi cinquant’anni, che hanno visto anche l’affermazione delle estetiche post-moderne e il definirsi della rivoluzione digitale – una possibile modalità di superare elementi quali la giurisdizione del diritto d’autore, o copyright, l’idea di proprietà intellettuale e la supposta unicità del soggetto creatore (ironicamente la mostra si apre con una carta da parati dove campeggia la scritta Wanted - “Ricercata”). A partire dal 1964 Sturtevant iniziò a “ripetere” le opere degli artisti a lei contemporanei, riferendosi ad alcune delle personalità più iconiche a lei contemporanee (da Marcel Duchamp a Joseph Beuys, da Andy Warhol, Jasper Johns, Roy Lichtenstein, Claes Oldenburg, Frank Stella fino a Paul McCarthy, Mike Kelley, Robert Gober, Anselm Kiefer, Félix González-Torres, per citare solo alcuni esempi), analizzando con straordinario anticipo concetti quali “autorialità” e “originalità” in relazione ai meccanismi di produzione, circolazione, ricezione e canonizzazione dell’immagine e dell’immaginario artistici contemporanei.
Le opere di Sturtevant – fin dall’origine percepite dal mondo dell’arte come inqualificabili, come accade con tutte le forme di anticipazione – non sono quindi mai copie, ma altrettanti originali, in quanto pensiero in azione che mette a fuoco un’esperienza dell’arte di cui, destabilizzandone l’ordine della rappresentazione, arriva a analizzare l’essenza. Come scrisse l’artista stessa: “la decisione di utilizzare altre opere, quali catalizzatori per portare in superficie tutto ciò che a loro soggiace, è stata sorprendente e terrorizzante. Sorprendente nella sua validità e veracità, terrorizzante nelle possibili conseguenze. Era mia intenzione sviluppare domande che, nella loro attualità estetica, sondassero il concetto stesso e i limiti dell’originalità”. Ecco che si rivela il senso del provocatorio titolo – The Brutal Truth (“La verità brutale”) – della mostra personale dell’artista all’MMK di Francoforte nel 2004, una delle più importanti e seminali dell’ultimo decennio: una mostra costituita da opere di artisti che Sturtevant aveva ripetuto ma che non erano copie quanto, invece, interrogazioni brutalmente vere sul tempo e sulla memoria, in cui il passato, senza perdere il suo aspetto di dato storico, ritrova la sua stessa validità di concezione nella riproposta presente, in cui la ripetizione non va intesa come morte dell’opera originale, ma sua nuova riscrittura al di là delle convenzioni, dei generi e degli stili, e in cui l’arte riscopre il suo statuto di “far vedere cosa ci fa vedere” e “pensare cosa ci fa pensare”. Rimanendo per decenni isolata, questa ricerca, che dagli anni Novanta si è espressa soprattutto attraverso il video (con riferimenti che vanno dal cinema hollywoodiano all’immaginario televisivo e pubblicitario e alla comunicazione digitale), si configura oggi non solo come paradossalmente originale, ma anche soprattutto come assolutamente anticipatrice rispetto agli scenari contemporanei, nel suo costante interesse a cogliere che cosa definisce un’opera d’arte in quanto tale, lasciando spazio alla vertigine di un’invenzione contemporanea ancora possibile e, in ultima analisi, quindi, per citare l’artista, al “potere silenzioso dell’arte”.
Nella ripetizione a memoria e manuale, per esempio, del Nue descendant un escalier o della Fresh Widow di Duchamp, della Rivoluzione siamo noi o delle azioni performative di Beuys, dei Flowers, delle Marilyn o dei Silver Pillows di Warhol, degli Store Objects di Oldenburg, delle bandiere, dei numeri e delle lettere di Johns, dei dipinti ispirati alla grafica dei fumetti di Lichtenstein, dell’astrazione minimalista e post-painterly di Stella e dei Partially Buried Sinks di Gober (una vera e propria campionatura dell’Arte Concettuale e della Pop Art, nelle loro varie declinazioni autoriali, che tra l’altro, a partire dalla metà degli anni Sessanta, sono state presentate in importanti mostre e cicli di opere anche a Napoli, come nel caso di Beuys o Warhol, nell’ambito della loro collaborazione con Lucio Amelio), Sturtevant pone al centro della sua ricerca la questione stessa dell’autonomia dell’arte, della differenza, di un rapporto critico all’arte e al suo contesto mediatico e significante. Va in questo senso sottolineato che Sturtevant si riferisce quasi esclusivamente ad artisti a lei contemporanei, con degli effetti di simultaneità fra l’opera e la sua ripetizione spesso disturbanti. Una ricerca estetica ed intellettuale che ha cortocircuitato le logiche stesse della Pop Art e oltrepassato i criteri dell’Appropriazionismo, emerso successivamente negli anni Ottanta e che non solo l’artista ha anticipato, ma da cui si discosta per il profondo radicamento della sua ricerca nel pensiero dei filosofi della differenza del XX secolo (da Michel Foucault a Gilles Deleuze), fino a prefigurare, nella sua analisi del potere dell’arte e delle immagini, l’impatto della cibernetica, i principi di clonazione e gli scenari della sensibilità digitale, aprendo le porte sul regno del simulacro e della sua diffusione simultanea contemporanea.
Ciò che però soprattutto interessa a Sturtevant è il ribaltamento dei valori e delle gerarchie della realtà e delle sue rappresentazioni artistiche, in cui per esempio il divenire-macchina di Warhol, i suoi codici seriali e superficiali, sono divenuti “il nostro cybermondo di eccessi, impedimenti, trasgressione e dilapidazione” che assorbe la realtà senza sopprimerla. In questo senso l’asse centrale della produzione di Sturtevant è rinvenibile appunto in due figure fondamentali del XX secolo: da un lato Andy Warhol, di cui Sturtevant è forse la sola artista ad aver integrato e portato alle estreme conclusioni la logica, e dall’altro Marcel Duchamp. È infatti una logica duchampiana, nella sua condanna del gusto come interdizione della parola e immobilizzazione del pensiero, a guidare Sturtevant nella sua selezione critica degli artisti e delle opere, indifferente a criteri biografici, raggruppamenti o coerenza estetica, e interessata invece a scandagliare la struttura profonda dell’opera d’arte, il suo “potere reale”, l’intensità e l’energia dell’invenzione di ogni forma e immagine. Da qui emerge un’idea di contemporaneità come qualcosa che prescinde da criteri cronologici o contestuali, che oltrepassa il suo tempo contingente: la rivoluzione duchampiana, che nuovamente Sturtevant è una delle poche artiste ad aver pienamente colto, non risiede nella sua articolazione concettuale o negli oggetti prodotti, ma nei suoi rivoluzionari scarti di senso, o nella sua resistenza al senso comune, e quindi nel suo disinteresse verso la ricerca della creatività, della novità e del riconoscimento da parte del mondo dell’arte, in favore dell’indifferenza verso di essi e del sabotaggio della nozione stessa di opera, unica ed autentica.
La mostra al MADRE riserva anche una grande attenzione infine alla produzione video degli ultimi quindici anni, presentando tutte le maggiori opere video e filmiche dell’artista. In The Dark Threat of Absence/Fragmented and Sliced (2002) Sturtevant, a partire dal video dell’artista americano Paul McCarthy The Painter, frammenta e fa letteralmente a fette (fragmented and sliced) la grande fabbrica globalizzata delle immagini contemporanee. In Elastic Tango (2010) assistiamo a un frenetico rimontaggio di immagini ed installazioni precedenti dell’artista stessa, ulteriormente riassemblate nella proiezione multipla Rock&Rap, vera e propria auto-citazione analitica e metodologica, come l’installazione Dillinger Running Series (2000), in cui il movimento del celebre criminale americano, reinterpretato dall’artista, coincide con quello circolare della macchina di proiezione: un movimento a vuoto, come nelle macchine celibi duchampiane, che costituisce un’architettura filmica in loop, ripetizione continua. Queste immagini di paurose mutilazioni o al contrario di esagerata estasi rispecchiano i nostri meccanismi pulsionali, quali spettatori globalizzati, la nostra condanna a subire una ripetizione seriale (da cui l’interesse dell’artista per il linguaggio della pornografia) che, rispetto alla quantità e intensità del impulsi che riceviamo, ci impedisce paradossalmente di provare piacere, condannandoci invece alla frustrazione. L’interesse di Sturtevant per la tecnologia è quindi la possibilità che essa offre di sottrarci alla volontà, di affidarci all’automatismo creativo della macchina, liberati dal giudizio e dalla scelta. Lontano dall’essere alienante, questa condizione contemporanea è alla base di un’istallazione come Vertical Monad (2007), posta al centro della mostra, opera che in modo esemplare ci permette di comprendere la relazione che Sturtevant intrattiene con il linguaggio e il senso stesso dell’arte, una volta liberata da costrizioni esteriori come dalla singolarità individuale. In uno spazio monocromo di un blu-grigio profondo, da un grande monitor al plasma si effonde la lettura di un testo in latino, le prime pagine dell’Etica del filosofo Baruch Spinoza (1632-1677). Un’esperienza totalizzante, un’immagine fisica quanto mentale, quasi un’immagine di sintesi, esterna alle reti, interiore a noi stessi. Di fronte alla contraddittorietà e all’appiattimento costante e progressivo dei sistemi di rappresentazione e informazione e dei modi di comprensione e valutazione (dell’arte, ma anche della vita), Sturtevant ci indica una via d’uscita: in Vertical Monad assistiamo all’apparizione di una realtà finalmente svelata oltre la fragilità dei limiti individuali, affacciati su un orizzonte spiazzante e stordente dove non esistono più né passato né futuro, né originale né copia, ma solo la “verità brutale” del “potere silenzioso dell’arte”.