Un percorso a ritroso nel tempo, non soltanto nello studio e nella riappropriazione di un’antica tecnica fotografica, ma anche nella ricostruzione di un’estetica decadente che dà origine a vanitas, composte da oggetti rari, naturalia e teschi.
La tecnica utilizzata da Giancarlo Pagliara per questa serie di opere è quella del collodio umido, appresa da Gino Mazzanobile, uno dei maggiori esperti italiani nel campo. Con questo nome si indicano quei procedimenti fotografici, inventati a metà del XIX secolo, che utilizzano il collodio come legante per emulsioni fotosensibili, da qui le ambrotipie, che prevedono come supporto il vetro e le ferrotipie che, come dice la parola, utilizzano lastre di ferro, latta o alluminio.
Qui l’autore le ha utilizzate entrambe, creando, lontano da una ricerca di un virtuoso tecnicismo, opere dall’atmosfera intensa, dove volute imperfezioni rileggono e reinventano il soggetto, immergendolo in una dimensione altra che sembra sottratta all’ordinario scorrere del tempo. Il risultato è un gioco di rimandi tra l’ieri e l’oggi che volutamente affascina e confonde chi guarda e che era in fondo già preannunciato dalla primitiva definizione di questa tecnica ( “Ambrotos” - immortale) che la collocava sub specie aeternitatis.