Per la sua mostra al MAC di Lissone a cura di Alberto Zanchetta, Paolo Grassino [Torino, 1967] ha deciso di inibire l’algido luminismo dei white cubes moderni, ha cioè stemperato l’evidenza architetturale per inoculare nelle proprie sculture il germe del dubbio. Drenate dai loro colori, le opere sono state ridipinte di un nero fumo che – alla maniera della caligine – sembra depositarsi sugli oggetti. Dello stesso avviso è anche l’al-lestimento della mostra, concepito come lo stoccaggio di un magazzino; i pallet, usati per trasportare le opere, diventano parte inte-grante dell’esposizione, elemento strutturale (dell’installazione) e allo stesso tempo de-strutturante (per ciò che concerne lo spazio). Giocando sui pieni e i vuoti della scultura, sulle euforie e le disforie dell’esistenza, le ca-taste dei bancali permettono a Grassino di creare un dedalo in cui le opere vengono segregate all’interno dell’ambiente. La mostra costringe quindi lo spettatore a un’immer-sione nei meandri oscuri della quotidianità, ove affiorano presenze perturbanti; è il caso del grande teschio di tubi corrugati, emblema per eccellenza della fugacità terrena. L’iper-trofica testa di morto, che con le sue dimen-sioni rafforza il proprio monito escatologico, è simile a un intreccio gordiano, un inestricabile groviglio che allude alla freudiana pulsione di morte, così come alle sofferenze e alle debo-lezze umane. Dello stesso avviso sono anche alcune “larve” che, avviluppate su se stesse, ci appaiono indurite dalle fusioni in alluminio.
Paolo Grassino ridefinisce l’architettura senza tuttavia voler occultare lo spazio: tutto resta visibile (tra le intercapedini dei pallet). Le barriere-trincee costruite con i bancali in le-gno servono a schermare la visuale, enfatiz-zando così il senso di smarrimento e di di-sagio che si effonde dalle sculture.
Lungo il percorso è possibile incappare in quadrupedi mutilati o figure umane trafitte da oggetti che ne mettono in crisi l’identità; i materiali sintetici prelevati dalla realtà si in-seriscono nell’anatomia umana/animale per mostrarci le ansie e le problematiche connes-se alla società consumistica. Queste “presen-ze” sono come altrettanti pungoli/punti dolenti che sorgono dall’ombra, o forse dalle fobie, dai disagi e dai dilemmi che attanagliano la nostra vita. Nel labirintico ordito dei pallet, le figure si sentono alienate ed emarginate, fi-nanche accerchiate e intrappolate, impossibi-litate a comunicare o a interagire con il mon-do esterno.
Accedendo al piano interrato del MAC, lo spettatore avrà la sensazione di sprofondare in un ipogeo, in quell’abisso che corre al nostro fianco, generando una vertigine che fa vacillare ogni nostra certezza. Non dobbiamo infatti dimenticare che le ansie e le paure sono ciò che ci permette di sentirci (più) vivi (che mai), apprezzando fino in fondo l’esi-stenza. Proprio per questo motivo, all’uscita del museo, lo spettatore troverà un cuore espiantato dal corpo che lo conteneva, con i ventricoli e le arterie recise in modo chirur-gico; sottoforma di involucro inerte e inane, il muscolo cardiaco ci rammenta la necessità di una vita che pulsa e freme di continuo. An-cora e ancora.