“S’io m’intuassi come tu t’immii” (Paradiso XI, vv. 80-81): con queste parole, Dante Alighieri ci apre alla possibilità di una fusione e comprensione che trascende il visibile, un “intuarsi” che permette di percepire l’altro e immergersi nel suo destino, come in un movimento di profonda immedesimazione. È proprio questo slancio che anima Closed eyes can see, una mostra pensata da Ida Pisani come un ponte tra due artisti che, pur non essendosi mai incontrati, parlano una lingua comune attraverso l’arte. In un tempo in cui le divisioni si moltiplicano, questa mostra diventa un atto di abbattimento dei muri, un invito a riconoscere l’altro come parte di sé, attraverso un dialogo silenzioso, un viaggio interiore condiviso.

La Prometeo Gallery diventa così il luogo di un incontro che va oltre le parole, uno spazio in cui si realizza quella fusione dei sensi che Dante evoca, uno “spellamento” che, come suggerisce il poeta e scrittore Davide Rondoni (1964-), ci fa uscire da noi stessi per entrare in una nuova visione. È in questo spirito di connessione che la mostra vede la collaborazione di due curatori, ciascuno portatore di una propria sensibilità, i cui sguardi convergono in un racconto unitario. Il dialogo tra le prospettive di chi scrive riflette e accompagna quello tra gli artisti, amplificando i temi di introspezione e relazione che animano l’intera mostra.

Per Zehra Doğan, questo uscire da sé è un’esperienza tangibile e dolorosa, un attraversamento che l’ha condotta, attraverso il carcere e l’esilio, a scoprire nuove dimensioni di resistenza e di espressione. Nelle sue opere, dove capelli, sangue mestruale e giornali diventano materia viva, il corpo si trasforma in un archivio di memoria e denuncia, simile a quel “tesoro” della memoria che Dante invoca, sapendo però che non basta per cogliere appieno la realtà luminosa del Paradiso. Anche Zehra sa che il corpo, per quanto potente, è solo uno strumento limitato, e quindi lo spinge al limite, lo apre, lo “sguaina” come Marsia, il satiro della mitologia greca che osò sfidare Apollo in una gara musicale e fu punito venendo scorticato vivo. In questo atto di “spellamento” simbolico, Zehra espone sé stessa fino al nucleo, dando forma a un linguaggio che sfida le convenzioni e rivendica la propria verità.

“Lo Stato turco ha annullato il mio passaporto. Ora sono una rifugiata in Europa, bloccata a Berlino da un anno, senza diritto di viaggiare. Ogni passo è intrappolato nel filo spinato di un pianeta diviso dai confini, come se fossi una criminale,” ci scrive Doğan, rivelando un senso di confinamento che va oltre le barriere fisiche. La sua arte diventa un grido muto, e nelle figure immerse in un silenzio carico di memoria, come il volto dipinto su giornali, si avverte il peso della censura e della perdita di identità. Ogni strato di carta sembra soffocare una parte di sé. “Mi sento come se tutti gli edifici distrutti della mia città fossero sopra di me”, afferma, evocando un fardello che non è solo materiale ma anche spirituale, un naufragio interiore colmo di solitudine e resistenza.

La figura femminile con la veste bianca macchiata di rosso rappresenta una purezza ferita, un corpo che si erge come tempio di esperienze e cicatrici. Quel rosso, forse sangue o vita stessa, diventa fiamma purificatrice, simbolo di lotta e dignità. Zehra lo definisce un “rito di auto-adorazione,” una celebrazione della propria esistenza come atto di resistenza, un tentativo di raggiungere, attraverso la materia, una bellezza essenziale che va oltre l’apparenza. Nelle sue opere, gli intrecci di capelli non sono solo elementi estetici, ma fili di memoria e simboli di identità e radici che la collegano alle storie delle donne che l’hanno sostenuta. “Ogni volta che tocco questi capelli, sento come se qualcuno mi tenesse per mano”, confida, indicando la comunione e forza che queste connessioni invisibili le trasmettono. È un rito che trasforma la rabbia in meditazione, un intarsio che custodisce una memoria vivida anche nel limite dell’oblio. Anche l’uso del sangue mestruale e di altri materiali organici sfida i tabù, rivendicando il corpo come territorio di resistenza e autenticità. Il sangue diventa simbolo di vita e potere, una femminilità che sfida i codici di vergogna imposti dalla società e invita chi osserva a confrontarsi con la vulnerabilità e la forza del corpo, come se ogni ferita fosse una finestra aperta sul mistero dell’esistenza.

La madre di Doğan la ammonisce: “Quando eri in prigione, ti ho sostenuta, portando fuori i tuoi lavori, ma ora sei libera e non ha senso usare ancora il sangue mestruale. È peccato.” Doğan risponde: “È una forma di espressione. I colori industriali sono estranei a ciò che voglio raccontare”. La madre insiste: “Se vuoi andare all’inferno, vai pure. Speravo che in esilio avresti capito che è peccato, ma invano. Lo vendi spudoratamente.” Nonostante questo scontro, il legame profondo con le sue radici e la sua terra si manifesta nelle opere di Doğan, come in quella che ritrae figure femminili immerse nella natura. Quest’opera evoca un ritorno alle origini, una riconciliazione con una terra da cui è stata separata, ma che continua a vivere dentro di lei. “Mi sento come se venissi da un altro pianeta e fossi catapultata qui”, racconta, esprimendo l’estraneità che riflette il distacco interiore dell’esilio.

Accanto a questa tensione espressiva e materiale di Zehra Doğan, si colloca l’opera avveniristica e multiforme di Matteo Mauro che si manifesta a fasi alterne seppur radicalmente intrecciate attraverso un duplice senso di potenza: uno fortemente materico, frutto di una maestria scultorea, di una certa conoscenza della statuaria nonché di un’indubbia abilità tecnica, perfettamente in grado di plasmare cospicue densità; l’altro, perennemente fluente oltre il tangibile, sonda strati più metafisici, i quali, tuttavia, sono il risultato di un incedere della materia verso lo spazio circostante, un compiacimento del suo stesso movimento. Tale dualità costituisce un aspetto fondante dell’intero lavoro di Matteo Mauro, sempre oscillante tra intricati binomi come quello che prevede la connivenza tra figurativo e non figurativo, tra assenza e presenza, vita e morte, distruzione e rinascita e poi ancora tra una constatazione disincantata e la più fiduciosa delle speranze.

Qui, gli occhi possono vedere persino non vedendo. Una volta assopiti, vacillano in quello stato etereo, frutto della forza incessante della materia, che avanza al di là del visibile, convergendo verso foschi stati percettibili e presagite riflessioni. Tra le opere scultoree in mostra vi è Dolce Metà che narra la storia di un anno bisestile che conta 20/20, una storia di unione e divisione, di una separazione inconciliabile, scissa e smembrata, destinata a permanere eternamente in un equilibrio precario; sulle stesse orme estetiche, la possente scultura Demiurge si pone dentro e fuori la forma, ininterrottamente sospesa nell’atto del divenire senza mai essere una o l’altra cosa, tronfia, soave e monca energia alla ricerca incessante dell’affinità elettiva. Eppure, tale tentativo, secondo l’artista, si presenta come vano e pressoché irrealizzabile in quanto l’atto stesso del toccare non trova mai un compimento esauriente, laddove l’impossibilità di fusione delle due alterità è sancita dallo spazio microbiologico che le separa.

Questo punto di vista si coniuga profondamente con la teoria del filosofo Jean-Luc Nancy a proposito del tocco, secondo cui “sentirsi di toccare non è propriamente un toccarsi perché si può toccare una cosa ma non l’esperienza del toccare. Quindi l’essenza del toccare è l’intoccabile. Fare esperienza del toccare significa fare esperienza dell’intoccabilità degli effetti che il toccare produce”; l’intensità marmorea di To be or not to be affronta, invece, la complessità della condizione umana e dell’essere scaraventati nel mondo, nonché la separazione tra l’essere e il non essere, concependo quest’ultimo come un oblio percepibile ma inimmaginabile; infine, Atom for the war, opera emblematica della complessità del reale, crocevia di istinti al contempo propositivi e distruttivi, ci invita sensibilmente a concepire la forza della materia come ciò che probabilmente potrà salvarci dall’auto-distruzione.

Come osserva il neuroscienziato Vittorio Gallese (1959-), questa esperienza di “intuarsi” è un modo per sentire l’altro dall’interno senza perdersi in esso, riconoscendo in lui una parte della propria esperienza vitale. Nell’arte di Zehra Doğan e Matteo Mauro, questa empatia diventa un linguaggio che oltrepassa il visibile, invitando chi osserva a entrare in un dialogo silenzioso e universale, in cui il personale si dissolve in una percezione condivisa dell’esistenza.