E voi siete tornato, e me li sono
trovati bruciati e intanto la fame
l’ho sempre i piedi non li ho più
Le storie di Pinocchio sono storie di dis-avventure nel molteplice senso di “avventure paradossali (eroiche e anti-eroiche insieme) ma anche nel senso di non-avventure in quanto Pinocchio in realtà non desidera nulla di particolare, non ambisce a nessun ruolo sociale o psicologico, non mostra neppure all’inizio una vera coscienza o autocoscienza ma si limita a correre libero per i campi.
Paradossalmente l‘iniziativa dell’azione non viene quasi mai dal protagonista narrativo ma sono le circostanze casuali e accidentali della “strada”, del vivere sociale che generano gli accadimenti che il nostro eroe sembra quasi sempre subire. Pinocchio appare spesso quale mera occasione per lo scatenarsi di un’azione che s’irradia prepotentemente dagli altri, che siano il Gatto e la Volpe o le convinzioni del padrone di Melampo o gli scherzi dei compagni di scuola. Pinocchio incrocia altri percorsi di vita e sono sempre percorsi duri, rigidi, crudi, ostili, tranne il caso della Fata e delle sue manifestazioni animali-fatate.
Pinocchio non impara nulla dal mondo (se non a mentire per difendere la sua intimità o per adeguarsi al contesto) e il mondo non capisce mai chi sia Pinocchio e questo in primo luogo perché lui stesso non conosce chiaramente la propria natura, se stesso. Che si proclami ragazzo o burattino viene sempre o scambiato per qualcun o qualcos’altro oppure catturato-sfidato e persino ridotto ad animale o a mera merce e materiale di consumo (legno, pelle asinina).
Il primo germe di coscienza sorge nel duro dialogo con il Grillo parlante dentro la casa di Geppetto, quando il nostro eroe vi è appena tornato scappando dal carabiniere che poi arresta proprio Geppetto. È la prima volta che Pinocchio si trova solo in casa e la sua relativa soddisfazione di essere scampato al pericolo dell’arresto viene bruscamente interrotta e turbata dall’irrompere dell’Altro, di una soggettività aliena che destabilizza la sua tranquillità e la stessa padronanza di quel luogo.
Pinocchio scopre con amarezza che la casa di Geppetto è abitata da più di cent’anni da un altro essere. Il suo senso di coscienza e di soggettività sorge nella misura in cui viene contestato e messo in discussione da un’altra soggettività. Non a caso è nel suo rifiuto (vitalistico e difensivo) dell’altro che Pinocchio usa per la prima volta un aggettivo possessivo, un termine di specificazione e un termine temporale: oggi questa stanza è mia. Emerge per la prima volta un principio di individuazione, distinzione, separazione.
La coscienza sorge infelice, critica, sfidata ma ancora non è autocoscienza e non è qualificata nè qualificante. La coscienza quale trauma dell’accorgersi di non poter essere soli, nè pieni nel proprio senso di possesso e nella propria facoltà di percezione. È il primo dolore di quella soggettività infante (pre-Io) a cui voleva tornare la poetica di Carmelo Bene. Il Grillo non è tanto la “voce della coscienza” di Pinocchio ma è la “voce dell’Altro” che stimola l’emergere del senso dell’Io in Pinocchio.
Il Grillo manifesta per la prima volta il senso dell’essere e il principio di identità. Ma Pinocchio è ancora pura bios, irrelata. La storia interiore di Pinocchio cresce e si sviluppa attraverso tre moduli fondamentali: il raccontare agli altri, il parlare con se stesso, il sognare (sia ad occhi aperti che oniricamente). Non è un caso che uno dei pochi auto-racconti pinocchieschi avvenga rivolto a Geppetto appena dopo il doloroso dialogo con il Grillo.
Gli altri saranno il raccontare alla Fata nell’incontro dentro la sua casina, il raccontare al compratore dopo la sua ri-trasformazione in burattino e la sintesi narrativa delle sue vicende a Geppetto dentro il ventre del Pescecane. Poche occasioni, pur molto intese ma in tutte la narrazione di Pinocchio si mostra confusa, caotica e dispiegantesi come un flusso olistico in cui tutto sembra allucinazione seppur invece il nostro eroe faccia riferimento a fatti a lui davvero accaduti. Un raccontare che non serve quasi a nulla, non viene quasi capito e mostra solo come la sua coscienza sia ancora fluida e poco soggettivizzata. Eppure siamo comunque di fronte a momenti evolutivi profondi, importanti, necessari.
Collodi sembra alludere pittoricamente ad una contestuale comunicazione pinocchiesca non verbale ma emozionale e fisica, questa sì passante da cuore a cuore, almeno verso Geppetto e la Fata. Quando racconta a Geppetto lo scontro con il Grillo lo fa in modo a-soggettivo, puramente fattuale, fisico per cui sembra un fantasticare, un caos di apparizioni spettrali all’interno delle quali Pinocchio si racconta come una delle tante figure evocate.
È proprio il fantasticare, il sognare ad occhi aperti, il parlare con se stesso ad alta voce che ritroviamo mentre si incammina verso la scuola e che lo connota anche in altri momenti significativi e decisivi a cui accenneremo. In questo primo fertile delirare Pinocchio da una parte esce dal mondo, si crea un proprio mondo immaginativo, dall’altra esercita da solo la propria affettività e soggettività in quanto al centro del fantasticare c’è sempre Geppetto, il suo affetto per lui e il suo desiderio di aiutarlo. Le immagini dell’oro e dell’argento evocano un’età aionica e primigenia che tornerà nel segno sempre paterno degli zecchini. Da una parte quindi Pinocchio auto-alienandosi si rende ancora più sensibile all’incontro con la musica, dall’altra è proprio il crescere nella consapevolezza dell’affetto verso Geppetto che lo salverà di fronte a Mangiafoco e in altre occasioni difficili.
Il sorgere e il formarsi della coscienza necessita di fasi quasi iniziatiche e rituali di trauma, sconnessione, alterazione che troveremo quando vede se stesso in Arlecchino, ritrova Gepetto in Mangiafoco e si rispecchia sempre nella Fata che gli appare osmoticamente nelle forme e condizioni più simili alla sua situazione del momento. Importante ad esempio è anche il suo non mangiare all’Osteria del Gambero Rosso, non partecipando così alla sacrificalità mortifera di quella buia cena.
E Pinocchio non tocca cibo proprio perché viene pensato da un pensiero fisso: moltiplicare gli zecchini di Mangiafoco per suo padre Geppetto. È sempre un istinto di ritorno, d’affetto, di rispondenza al fuoco paterno che lo sostiene (e pure lo frega). Pinocchio sogna ad occhi aperti, si nutre del proprio astratto sognare. E poco dopo sognerà davvero mentre dorme qualche ora in attesa della mezzanotte della ripartenza.
Un’aura apocalittica domina la scena (Mt. 25,6) e il tema dell’oro rinvia sempre al tema del cuore: lo zin zin degli zecchini rinvia allo zinzino di cuore del racconto. Notte, oro e musica: Dioniso/Apollo. Anche qui la coscienza si forma per tensione e contrasto fra la natura artificiale degli zecchini che crescono e la violenza del contingente visualizzata nei tre violenti colpi alla porta da parte dell’oste. Natura e società confliggono, come sogno e risveglio, astratto e spontaneo.
Geniale Collodi nel mostrarci un Pinocchio che dopo essere stato appena svegliato nel cuore della notte cammina a casaccio nel buio mi fitto parlando con se stesso, rimuginando, come in dormiveglia. E non è un caso che parla con se stesso appena dopo che si è verificato un altro dialogo drammatico con il Grillo che qui appare come fantasma di se stesso. Pinocchio la cui coscienza inizia a definirsi ma ancora come uno spettro fra gli altri spettri.
Il nostro eroe combatte con coraggio con l’ostacolo del Grillo e della Notte e lo fa certamente per Geppetto ma pure per difendere se stesso, la sua scelta e libertà. In questa lotta inizia a formarsi come Pinocchio; nel sentire l’eco della sua voce, nella solitudine creativa del parlarsi addosso, nella stessa critica al Grillo-Geppetto, fantasmi-specchio della sua coscienza fantasmatica. Anche nel suo racconto delle proprie disavventure fatto alla Fata non cambia la situazione: un flusso disconnesso privo di una sua ermeneutica e privo di ogni critica, filtro, valutazione. Gli accadimenti restano nudi, brutali e quindi: senza senso pur nell’autenticità del loro ricordo e della loro condivisione.
E infatti il burattino non comprende che il male viene dal Gatto e la Volpe e che gli stessi sono gli Assassini. La distinzione fra maschera e volto non è ancora appresa. Lo sarà alla fine, quando li incontrerà di nuovo con Geppetto. Il raccontarsi comunque serve sempre e infatti la sintesi che il burattino farà agli stessi suoi persecutori sarà concreta e attendibile a differenza del racconto emozionale fatto alla Fata. L’evoluzione non si ferma mai.
Mentre aspetta che i suoi zecchini sepolti crescano Pinocchio è in città, nel luogo dell’inganno, dell’equivoco e dell’alienazione. Il tema è sempre il cuore che qui viene paragonato ad un orologio. Il suo fantasticare-parlare da solo ora torna astratto e sempre più auto-alienante in quanto ora Pinocchio si allontana anche dal tema del padre per sognare ad occhi aperti un regno aureo della moltiplicazione inutile e immensa: castelli con dentro mille cavallucci di legno! Ma il regno del kronos è spietato: l’eroe conta i minuti, conta i passi, il cuore diventa tachicardico ma il campo resta deserto, anzi diventa il deserto, il nulla.
L’Astratto è crudele, vuoto, i quanto anti-naturale. Il racconto al giudice-scimmione non serve nulla seppure preciso, umano, attendibile: il mondo è al rovescio e quindi occorre saperlo rovesciare di nuovo per poterne uscire. Molto bella la scena in cui il burattino unisce una corsa forsennata al suo parlarsi mentale dove questa volta evoca sia Geppetto che la Fata, segno di maturazione. Il tema è relazionale e anticipatorio: come lo giudicheranno, cosa diranno?
La coscienza si forma anche attraverso la via dell’autocritica che ritorna nel suo doloroso rimuginare mentre giace di notte legato nella cuccia del cane Melampo. Con l’autocritica inizia una prima forma di ermeneutica del reale ma appare ancora immatura, parziale, incompleta: Pinocchio s’inventa l’immagine mitizzante della “(s)Fortuna” quale capro espiatorio-esplicatorio delle proprie non piacevoli vicissitudini. La sua invocazione alla ri-nascita appare sapientemente calzante: la coscienza quale vita parallela, doppia vita, percorso di cambiamento vitale. Ancora parla con se stesso di fronte al freddo marmo della (finta) tomba della Fata, piangendo tutta la notte.
Un momento di purificazione traumatica ma decisivo in quanto attraverso la via sapienziale del cuore il nostro eroe riesce persino a leggere la scritta sul marmo e verrà salvato dal fatato Colombo che lo chiama per nome e lo porterà alla spiaggia da dove vedrà in lontananza Geppetto. Il massimo del peso esistenziale richiama il massimo della leggerezza: il segno del colombo. Collodi è maestro di una sua lingua che sembra alchemica! La prova della pietra, l’esperienza rituale della morte svela il cuore e salva l’eroe. Il nostro eroe parlerà con se stesso anche sulla spiaggia del mare nella vicenda dello svenimento del compagno Eugenio. Ancora una volta il senso della morte e l’autocoscienza vengono alla luce insieme. Per la prima volta mentre parla costernato ad Eugenio svenuto Pinocchio cita due volte il nome di Dio: il tema dell’identità e della coscienza continua a crescere!
Qui la lotta pinocchiesca è il combattimento fra percezione di sé e percezione degli altri su sè stesso. Il perenne conflitto mondo-Io stimola il definirsi dell’interiorità e dell’autonomia. Mentre i carabinieri scortano Pinocchio verso la città l’eroe di legno si sente morire e qui realtà e incubo si intrecciano: gli pareva di sognare e che brutto sogno! Era fuori di sé. Appare con chiarezza in questa ulteriore prova traumatica trasformativa tutto l’ambito della coscienza pur attraverso un suo profondo travaglio animico (il tema è sempre “il cuore”): il vedersi “dal di fuori”, il distacco/contrasto con il mondo e il senso del reale, la “spina nel cuore” della vergogna e dell’afflizione al pensiero che la Fata lo possa vedere in quella situazione imbarazzante e umiliante. Sottoposta ad una dura pressione psicosociale la coscienza si erge e si autoscolpisce nei suoi confini e nella sua chiarezza.
All’interno di una processione che Collodi descrive efficacemente quale “palio feroce” Pinocchio quale vittima sacrificale vince per la seconda volta la paura della morte (la prima davanti alla tomba della Fata); quella paura a cui la Fata stessa lo sfidò evocando i quattro conigli neri. Il tema del travaglio del cuore ritornerà poco dopo quando liberato e solo starà per tornare a casa dalla Fata, di notte, facendo più volte avanti e indietro per la vergogna. Anche in quel caso infatti parla con sè stesso per riposizionare la propria situazione coscienziale e riprendere il suo “coraggio” cioè il controllo della sua emotività.
Questa volta è la Fata stessa la polarità antagonista: la Fata e la percezione giudicante che la Fata ha di Pinocchio e quindi il connesso tema della coerenza pinocchiesca con sè stesso. Regredito ad asino e ad asino azzoppato si ritrova a parlare con se stesso mentre mangia per la prima volta la paglia evocando il tema della “pazienza”, cioè dell’adattabilità al mutare dei contesti e delle relazioni con il mondo. Tutte queste trasformazioni non sono accadute invano e ce ne accorgiamo quando l’eroe di legno racconta le sue ultime mutazioni all’esterrefatto compratore del ciuchino pinocchiesco.
Ora il racconto è chiaro, preciso e limpido seppur sembri all’ascoltatore un folle delirio. La coscienza è quasi completata nella sua definizione e proprio l’indipendenza e la disinvoltura narrativa pinocchiesca rispetto all’ebete opacità dell’ascoltatore (a cui interessa solo la sua merce perduta) ne manifesta la superiorità. Pinocchio sa raccontare le sue mutazioni e anche l’ultima: da asino morto a burattino vivo. Mutazioni reversibili, come gli stati di coscienza. Similmente appare consapevole e coerente il narrare di Pinocchio a Geppetto ritrovato nel Pescecane.
Una narrazione che non a caso parte dalla vendita dell’abbecedario e si ferma al ricordo dell’avvistamento di Geppetto che stava per naufragare. Non serve raccontare altro; anche perché sull’Isola Geppetto non esiste più: è il regno femminile della Fata sulla quale il falegname tiene un silenzioso riserbo sebbene la Fata abbia detto nella sua casina che lo aveva avvertito (quindi c’era già stato un contatto fra i due). Che la coscienza sia ora matura lo si evince anche dall’interrogare pertinente che Pinocchio compie verso Geppetto e la segnaletica di tale compimento è data dalla presenza della candela e dal gesto del suo impugnarla.
È Pinocchio ora che controlla la luce, la sposta e conduce il povero Geppetto verso la libertà attraverso la bocca del Pescecane. L’eroe domina la reversibilità. Ora Pinocchio non dorme né sogna più: lavora giorno e notte fino al sogno finale dove la Fata diventa sogno ma un sogno reale, profetico, che ha effetti reali all’indomani dove abbiamo l’ultima mattina trasmutativa delle molte delle sue avventure.