Un progetto inedito, site-specific ruota intorno alla fotografia, all’architettura e alla scienza e anima le sale del Teatro dell’architettura Mendrisio dell’Università della Svizzera Italiana, progettato dall'architetto Mario Botta.
What Mad Pursuit fino al 7 ottobre con la curatela di Francesco Zanot raccoglie i lavori fotografici di tre artisti della scena internazionale che lavorano con la fotografia attraverso modalità e approcci diversi e sono l’austriaca Aglaia Konrad, l’italiano Armin Linke e l’olandese Bas Princen.
Questa mostra è il risultato di un processo di collaborazione, con gli artisti, con i fotografi e tra i fotografi stessi ma è anche una riflessione sul concetto stesso di collaborazione, sull’incontro e sull’intersezione di lavori diversi. Intersezione intesa anche nel significato di sovrapposizioni e interazioni al centro del dialogo del progetto che abbiamo messo insieme.
(Francesco Zanot)
Le 50 opere presentate sono la manifestazione di un intreccio colto e raffinato tra arte, scienza e fotografia e naturalmente architettura con una modulazione inedita, frutto di un progetto durato sei mesi. Per Francesco Zanot la sequenza delle immagini immerse nella grandezza architettonica del Teatro costituisce un flusso tra lo spazio rappresentato e lo spazio espositivo.
È una sorta anche questa di verifica ulteriore, di un esperimento pseudo scientifico e della tensione semantica in particolare, che si genera attraverso l’accostamento di opere realizzate da autori diversi in modi diversi, in tempi diversi, in luoghi diversi e con scopi diversi.
(Zanot)
E il titolo scelto per questa nuova iniziativa artistica che unisce creatività molteplici è What Mad Pursuit. Si riferisce esattamente a un’idea di dialogo e di comunicazione. Ma precisa il curatore: “Prende lo spunto dal saggio del 1988 del neuroscienziato inglese Francis Crick, noto in particolare per il grandissimo contributo che ha dato alla scoperta della struttura del DNA. All’interno di questo scritto, c’è una frase cruciale che recita In natura le specie ibride sono generalmente sterili, ma nella scienza è spesso vero il contrario. I soggetti ibridi sono molte volte eccezionalmente fertili, mentre se una disciplina scientifica rimane troppo pura è destinata a deperire”.
E, oltre al riferimento scientifico, l’esposizione “si avvicina tra l’altro anche alla commistione e all’equazione tra arte e scienza che risuona in qualche modo nel processo dei tre artisti, nelle opere presentate in questa occasione e più in generale all’interno del loro percorso dove hanno sviluppato questo dialogo tra arte, fotografia prevalentemente, e scienza. Ancora prima di un altro tema fondamentale, visto il contesto del luogo in cui ci troviamo che è l’architettura, lo spazio costruito, uno dei fil rouge possibili per poter interpretare questo itinerario”.
Aggiunge una nota preziosa per il visitatore: “Nessuno dei tre autori è un fotografo di architettura ma ciascuno di loro utilizza l’architettura per sviluppare una serie di riflessioni che partono da questo fulcro e poi se ne distanziano progressivamente concentrandosi sull’operazione fotografica stessa, sul rapporto tra architettura, politica o architettura ed economia, sul rapporto e relazione tra passato e presente, sul rapporto tra documentazione e interpretazione. Tutto studiato per questo spazio, per il Teatro di Architettura che si propone di investigare da una parte il rapporto tra architettura e fotografia e dall’altra quello tra la fotografia e il contesto dove ci troviamo”.
Spazio rappresentato e spazio espositivo, intreccio con le opere al centro in un processo di continua negoziazione tra soggetto e spazio espositivo. Si esplora in questo contesto anche la materialità della fotografia nello spazio. Immagini concepiti come oggetti e, in quanto tali, intrattengono il loro rapporto con lo spazio sia dentro l’inquadratura sia con lo spazio esterno.
Ed entrando nel vivo delle opere che scorrono in questo scenario di forte impatto visivo, Francesco Zanot sottolinea: “I tre artisti di questa mostra si sono confrontati direttamente e letteralmente con le pareti della struttura, riflettendo sulla distanza da mettere tra le immagini e i muri perimetrali e sulle conseguenze che questa distanza provoca nella lettura delle immagini, conseguenze che non sono soltanto percettive ma anche semantiche. Per Aglaia Konrad le opere Shaping Stones aderiscono come wallpaper alle pareti e lasciano trapelare la loro texture e dall’altra parte Il lavoro centrato sulla materia, la pietra investigata nel suo passaggio, tra il passato attraverso le epoche fino al presente, è un punto d’incontro tra naturale e costruito”. Il suo lavoro ci mette di fronte a una mastodontica, impossibile conurbazione che sfida il tempo e lo spazio e comprende, in quartieri contigui, la caverna e il grattacielo.
Bas Princen presenta una serie di opere che investigano in profondità la natura delle immagini attraverso il loro rapporto con l’architettura. Si tratta di una vera e propria operazione di dissezione delle immagini. “Il suo lavoro solo apparentemente sembra convenzionale e molte delle sue immagini sono stampate su una carta molto particolare di riso, un materiale rugoso, corrugato che trasferisce alle immagini una qualità scultorea e restituisce rilievo e volume, ricordandoci che nello spazio espositivo le opere fotografiche non sono mai immagini ma sono oggetti. L’artista investiga sempre in profondità. Molte delle opere sono fotografie di altre fotografie”. E ogni fotografia è un dettaglio, la cui selezione è determinante per orientare una specifica lettura.
Armin Linke invece “estrae dal proprio lavoro e dal suo archivio, delle immagini preesistenti, caratteristica della sua ricerca fin dall’inizio della sua carriera. Anche in questo caso compie l’azione di prendere, estrarre immagini che aveva già realizzato nel corso degli anni, mescolandole tra loro e ricompilandole al fine di costruire una nuova narrazione per attivare nuovi significati, nuove letture e nuove interpretazioni che si integrano nello spazio attraverso un display che riproduce il ritmo di queste architetture” illustra il curatore. L’intero allestimento è concepito come un’installazione e come una coreografia il display di Linke segue il ritmo dello spazio espositivo e lo mette in mostra insieme alle immagini. Scenografia e opere si fondono in un unico aggregato democratico e multiforme.