Il Museo di Arte Moderna e Contemporanea di Trento e Rovereto stupisce ancora una volta per la ricchezza di un’esposizione che si interroga sull’influenza che il padre della Secessione viennese, Gustav Klimt, ebbe sull’arte italiana di inizio Novecento.
La mostra comprende due capolavori assoluti: Giuditta II e Le tre età della donna, attorno ai quali si snoda un corollario di circa 200 opere, provenienti da importanti collezioni pubbliche e private. L’allestimento, a cura di Beatrice Avanzi e da un’idea di Vittorio Sgarbi, ospita artisti del calibro di: Vittorio Zecchin, Felice Casorati, Galileo Chini, Luigi Bonazza, Luigi Ratini e lo scultore Adolfo Wildt. Nello splendido catalogo dedicato alla mostra, la curatrice definisce “folgorante cortocircuito” il rapporto di influenza reciproca tra Klimt e l’Italia e le sue parole ci accompagnano anche nella nostra intervista di approfondimento.
Domande relative ad un periodo storico dalle inesauribili chiavi di lettura, come dimostra anche un’altra mostra fruibile presso il MART: Cabaret Vienna L’Atelier fotografico Manassé (anch’essa nata da un’idea di Vittorio Sgarbi). 120 fotografie, spezzoni di film, documenti, copertine di riviste e libri d’artista descrivono l’atmosfera elettrizzante di inizio secolo, ripercorrendo la storia dei coniugi Olga Spolarits e Adorjan Wlassics e riscoprendo un archivio fotografico unico nel suo genere, di cui ci parlando i curatori: Chiara Spenuso e Claudio Composti.
Klimt e l'arte italiana
I rapporti tra Klimt e l’arte italiana perdurano nel tempo, all’insegna di un’inesauribile e reciproca infatuazione. Partirei col chiedervi come vi siete mossi nell’organizzazione di una mostra di questa portata. Penso – soprattutto – alla scelta, che immagino non semplice, delle opere da includere…
La mostra vuole analizzare per la prima volta l’influsso che Gustav Klimt esercitò su numerosi artisti italiani che accolsero le suggestioni del maestro austriaco dopo la sua partecipazione alla Biennale di Venezia del 1910 e all’Esposizione Internazionale di Roma del 1911. Si tratta di un influsso limitato nel tempo, poiché già negli anni Venti si esaurisce, ma particolarmente significativo per la ricchezza e la varietà degli esiti. È importante sottolineare che questi artisti non furono semplici imitatori di Klimt, ma ciascuno ne interpretò il linguaggio in maniera personale, con risultati spesso molto originali. Di tutto questo abbiamo tenuto conto nell’organizzazione della mostra, che ha richiesto una preparazione di circa due anni. Siamo partiti dai due capolavori di Klimt acquistati dallo stato italiano, Le tre età della donna e Giuditta II, qui riuniti eccezionalmente per la prima volta dopo oltre un secolo. Queste due opere sono il perno di un percorso che prende in esame l’opera di pittori attivi a Venezia, quali Vittorio Zecchin e i giovani “dissidenti” di Ca’ Pesaro, o coinvolti nelle grandi imprese decorative della Biennale (Galileo Chini). Altre sezioni sono dedicate agli artisti trentini e triestini, che, per prossimità geografica e storica, furono particolarmente vicini al clima delle Secessioni. La mostra rivela inoltre la vicinanza a Klimt di maestri del ʼ900 italiano come Adolfo Wildt e Felice Casorati. Si tratta di circa 200 opere provenienti da importanti collezioni pubbliche e private. Alcune erano già note, anche in riferimento all’influsso di Klimt, ma altre sono vere e proprie “scoperte”.
Come avete ricostruito il periodo storico e quali sono state le sorprese incontrate durante le ricerche?
Il periodo storico è quello, ben noto, di inizio Novecento. In questi anni numerosi artisti cercano l’affermazione di una modernità che si allontani dal linguaggio accademico: molti scelgono la via radicale dell’avanguardia, ma altri guardano a influssi ed esempi internazionali, come fu, appunto quello di Klimt. Si può dire che la fascinazione per il maestro austriaco fu un fenomeno talmente vasto da porsi come vera e propria alternativa alle ricerche dell’avanguardia Proprio la ricchezza di suggestioni ed esperienze che Klimt ha determinato è stata la vera sorpresa della mostra, oltre, naturalmente, alla scoperta di opere poco conosciute, come i dipinti dei veronesi Guido e Attilio Trentini o dei triestini Vito Tmmel e Gino Parin. In questo senso, la mostra è anche un’occasione per scoprire artisti meno noti.
Venezia e Ravenna furono elementi chiave nell’operato di Klimt. In che modo, l’attuale esposizione evidenzia la capacità delle due città di modificare la struttura delle sue opere ed il corso della sua carriera?
I capolavori del “periodo aureo” di Klimt nascono dall’ammirazione dell’artista viennese per la cultura veneziana, ricca di ori, mosaici e murrine, e per i mosaici ravennati che egli poté vedere durante i suoi frequenti viaggi in Italia. Ne deriva una svolta determinante nella ricerca espressiva di Klimt, che, a partire dai Quadri delle facoltà per il soffitto dell'Aula Magna dell'Università di Vienna (1899-1907), mette a punto un linguaggio profondamente originale, fondato sull’uso dell’oro e su un decorativismo che tende alla bidimensionalità. Le due opere presenti in mostra, Le tre età della donna e Giuditta II, sono considerate capolavori di questo periodo. Il “debito” di Klimt verso l’Italia è dunque particolarmente forte ed evidente: egli rende attuali e trasforma in uno stile rivoluzionario le impressioni derivate dalla tradizione artistica del nostro paese, influenzando a sua volta i giovani artisti italiani. Si instaura così una sorta di cortocircuito, di rapporto di “dare e avere” davvero unico e affascinante.
Come evidenzia l’esposizione, l’influsso klimtiano sull’arte di Felice Casorati?
Felice Casorati risentì dell’influsso di Klimt, che aveva visto alla Biennale di Venezia, durante gli anni giovanili, trascorsi a Verona tra il 1911 e il 1915. L’esempio del maestro austriaco si traduce in opere caratterizzate da un accentuato decorativismo, decantato poi in immagini di intensa spiritualità, come La preghiera del 1914, dove il profilo di una giovane donna si staglia su un prato ricco di decori e motivi dorati, di ispirazione secessionista. Si tratta di una delle interpretazioni più originali del linguaggio klimtiano. Negli stessi anni egli stringe un profondo sodalizio con i pittori attivi sulle rive dell’Adige, dando vita a un vivace scambio di esperienze, dove l’interesse per il mondo mitteleuropeo è predominante. Ricordiamo, in particolare, Attilio Trentini e il figlio Guido.
Il catalogo evidenzia i limiti nel definire Adolfo Wildt fu definito “il Klimt della scultura”. Quali furono gli elementi in comune e quali, invece, i distintivi?
La definizione è di Antonio Mariani, critico e scultore, in occasione della Biennale di Venezia del 1922. Maraini coglie con efficacia gli influssi dello stile secessionista sull’opera di Wildt, forse particolarmente sorprendenti proprio perché tradotti in un linguaggio espressivo diverso dalla pittura. Questi si devono al fatto che Wildt, di origine milanese, fu legato per molti anni da un contratto esclusivo al mecenate prussiano Franz Rose, e poté così assorbire numerose suggestioni del mondo nordico. Egli dà vita a una ricerca originalissima, dove convivono una straordinaria sapienza nella lavorazione del marmo, l’amore per i maestri del passato e un’accentuata tendenza espressionista e decorativa, molto vicina all’esempio di Klimt. Influssi klimtiani sono particolarmente evidenti anche nella sua produzione grafica, in raffinatissime pergamene, dove figure immateriali, di eterea bellezza, occupano spazi attraversati da motivi decorativi di stelle, croci e arabeschi dorati.
Come dialogano le attuali esposizioni con la superba collezione permanente del MART, soprattutto rispetto al legame con la figura di Luigi Bonazza (presente in mostra)?
La mostra dialoga strettamente con le collezioni del Mart, poiché una sezione è dedicata a quelle “terre di confine” che fino al 1918 furono sotto il dominio dell’impero asburgico: Trento e Trieste. Per vicinanza storica e geografica gli artisti di queste regioni furono naturalmente rivolti all’arte mitteleuropea. Alcuni di loro, attratti dalle novità delle Secessioni, scelsero di compiere la propria formazione a Vienna assimilando fin dagli esordi il linguaggio secessionista. È esemplare il caso di Luigi Bonazza, originario di Arco, ma formatosi a Vienna, dove, tra il 1898 e il 1901, compì i suoi studi presso la Kunstgewerbeschule. Bonazza è presente in mostra non soltanto con opere delle collezioni, come il tritico La leggenda di Orfeo, ma anche con dipinti che provengono dalla casa che l’artista che decorò con soggetti mitologici e allegorici negli anni Venti. Un vero “gioiello” secessionista che ancora oggi sopravvive nel cuore di Trento.
Cabaret Vienna L’Atelier fotografico Manassé
Possiamo, ragionevolmente, affermare che la fortuna dell’Atelier Fotografico Manassé coincise con lo sgretolarsi dell’Impero austriaco?
La fine dell’impero austro ungarico apre sicuramente le porte di una nuova società, di cui l’Atelier Manassé diventa testimone e perfetto interprete. In particolare del desiderio delle donne di rompere le catene di una cultura che le vedeva “solamente” madri di famiglia. La nobiltà smette di esistere, o almeno viene ufficialmente abolita, e i nuovi modelli sono le attrici, le ballerine di tutta Europa, di Hollywood, che portano i capelli corti, fumano, guidano, vestono à la garçonne. Le donne danno finalmente vita a giochi di messa in scena, di travestimenti, si sentono libere di spogliarsi davanti all’obiettivo ed essere protagoniste delle loro fantasie, protette dalla firma Manassé, che con la sua arte non le mostra mai “spudorate” ma libere di autorappresentarsi.
Quali furono le maggiori influenze dei coniugi Olga Spolaritis e Adorjan Wlassics? Istintivamente, si collega la loro audacia fotografica alla pennellata di Egon Schiele…
È difficile individuare nell’opera dell’Atelier Manassé una sola influenza. Olga e Adorjan vivono in un periodo di grande fervore per l’Europa, tanto euforico sul piano culturale quanto drammatico su quello politico: l’entusiasmo lasciato in eredità dalla Belle Époque ma anche la Grande Guerra, le spinte rivoluzionarie e quelle reazionarie, la fine degli Imperi, la musica, le nuove droghe e i costumi sessualmente fluidi della stagione dei cabaret. I Wlassics lasciano Budapest per approdare a Vienna, capitale di molte delle avanguardie letterarie, intellettuali, artistiche e cinematografiche dell’epoca e loro stessi, oltre a farsi interpreti più o meno volontari del loro tempo, sono fra i grandi protagonisti di questo straordinario fermento culturale.
Colpiscono oltre ai ritratti ed alla fascinazione per la moda del momento, le mise en scène (che ricordano, con un notevole balzo storico, le opere di Paolo Ventura). Quali le motivazioni di questa scelta stilistica?
Tutti gli studi fotografici importanti dell’epoca hanno senz’altro una matrice comune che trova nella moda e nei ritratti una costante stilistica. Ma l’Atelier Manassé vuole dare ai suoi soggetti la possibilità di diventare protagonisti di favole, di mondi immaginari e vagheggiati ed è per questo che si caratterizza sopra tutti e sopra tutto proprio per l'invenzione di messe in scena, giochi di collage e composizioni in camera oscura, travestimenti ironici e scenografie surrealiste. Questo loro modo di fare fotografia, al limite del kitsch a volte, li rese i più richiesti di Vienna e, per qualche anno, tra i più famosi fotografi del mondo.