Abbiamo intervistato il dr. Alfredo Antonaros, coautore del libro Il Dolce. Il piacere del gusto nella storia, durante la trasmissione Geo&Geo del 10 febbraio 2014.
Dottor Antonaros, il concetto di dolce ha assunto nel tempo tanti significati simbolici, discostandosi dalla pura alimentazione, non è forse vero?
Verissimo. A rendere prezioso, desiderato, e anche, in un certo modo, a mitizzare il gusto dolce, è stata certamente, come si è accennato, la scarsa disponibilità in natura di alimenti edulcoranti, e la stretta stagionalità, fuori dalle aree tropicali, di prodotti vegetali con un elevato contenuto zuccherino. La dolcezza è, prima di tutto, un sapore. Ma – essendo uno dei culmini, insieme a poco altro, del piacere del nostro corpo – è diventata anche, per estensione, il termine per definire tutto ciò che è gradevole ai sensi, non solo alla gola ma anche alla vista, all'udito, all'odorato. O quanto, in una persona, appare piacevole e di temperamento mite. O per descrivere un suono che ci sembra amabile.
Il gusto del dolce è stato sempre oggetto di profondo interesse anche nella letteratura: possiamo seguire la sua storia attraverso l’arte?
Le presenze del dolce (come ingrediente e materia prima, quindi frutta, miele, zucchero, dessert, ecc.) nell’arte e nella letteratura hanno percorsi paralleli, con alcune tappe importanti che, in sostanza, sono tre: il diffondersi, nel Medio Evo, attraverso la dominazione araba, di una serie di preparazioni dolci prima in gran parte sconosciute (dalle frittelle al gelato), anche se, tuttavia, proprio il costo proibitivo dello zucchero (come quello di molte spezie) fa ancora del suo consumo uno status symbol e un elemento di prestigio per le sole classi ricche; secondo momento, l’arrivo della canna da zucchero nel Nuovo Mondo, con un percorso in senso contrario a quello che fa il cacao; l’estrazione dello zucchero dalla barbabietola, che, dall’epoca napoleonica, ne allarga e ne diffonde l’uso in Occidente.
Il dolce fa bene o fa male? Lo zucchero e i dolci hanno avuto alti e bassi anche nella storia?
È da millenni che ci si interroga se Il dolce faccia bene o male. Anche se, da sempre, gli uomini hanno pensato che il dolce fosse il migliore dei sapori, il più perfetto, come lo definivano medici antichi quali Ippocrate, Galeno e i loro epigoni medievali, convinti che il miele fosse un ottimo alimento ma aiutasse anche a conservarsi in buona salute. Il problema è uno solo: ci sono alcuni alimenti che, per loro particolari caratteristiche, sono simbolicamente più carichi e ricchi di altri. Pensiamo ad esempio al pane, alla carne, al vino, che hanno quasi sempre occupato un posto a sé nell’alimentazione umana. Questo è anche il caso specifico dello zucchero: sin da quando è comparso in Occidente, è stato via via angelicato e demonizzato, a causa di una caratteristica essenziale: il legame con il piacere. Il sapore dolce è infatti indissolubilmente legato al piacere. Ma fin dai primi secoli della sua storia lo zucchero pone un problema che è prima teologico e poi medico. Qual è la sua natura reale: è un medicamento, un condimento o un alimento? Fa parte degli alimenti consentiti di Quaresima?, ci si domandava fin dal XII secolo. Tommaso d’Aquino aveva tagliato corto sull’argomento, affermando in sostanza che quanti consumavano dolciumi in Quaresima lo facevano non per nutrirsi ma per «aiutarsi nella digestione» .
Nell’evoluzione degli atteggiamenti (etici, teologici, medici, culturali) nei confronti dello zucchero pesano soprattutto due elementi economici che sono la sua disponibilità e il suo prezzo. A partire dal XVII secolo, man mano che lo zucchero cominciava ad affluire in quantità sempre maggiori nelle case del vecchio continente, si sviluppa in Europa un animato dibattito, sia medico che religioso, su questa sostanza. Spesso queste due visioni s’intrecciano e si confondono. La medicina del tempo è ancora profondamente influenzata dalle teorie galeniche, entrate a far parte del patrimonio scientifico europeo grazie a medici e scienziati arabi che lavoravano a Toledo, Salerno e a Gondeshapur, nell’antica Persia. Secondo la teoria degli umori di questa corrente medica saccarosio e miele vengono considerati liquidi “caldi” e utilizzati in maniera intercambiabile (soprattutto sottoforma di sciroppi) per curare la tosse, il respiro affannoso, il mal di gola. Anche in ambito medico, progressivamente, lo zucchero comincia a sostituire il miele, grazie all’aumento delle forniture di zucchero disponibili e del conseguente calo del suo costo. A favore dello zucchero c’è anche il suo colore bianco. Paracelso ritiene anche che ogni alimento sia un composto che reca in sé una parte di veleno mischiata ai principi nutritivi. È così che i suoi seguaci – che, in Francia sono in pratica tutti ugonotti – finiscono per catalogare lo zucchero come sostanza intrinsecamente malefica «Sotto il suo candore, lo zucchero nasconde una grande nerezza e, sotto la dolcezza, un’acrimonia immensa, pari a quella dell’acqua forte. Se ne può cioè estrarre un solvente che scioglierà l’oro”.
Partendo da questa segreta “nerezza” dello zucchero la cultura europea del Seicento inevitabilmente s’interroga e si preoccupa – cosa che non ha smesso di fare neppure oggi – su come questo dolcificante possa incidere sulla salute dei consumatori – . Può sembrare strano ma la cosa continua ancora oggi, perché l’abbondanza di zucchero ha suscitato sempre discorsi che incitavano alla restrizione, condannando in termini moralistici – da secoli supportati da valutazioni mediche o presunte tali – gli eccessi del suo consumo, con una crescente riprovazione un tempo teologica, oggi sociale (i costi collettivi dell’obesità, delle carie dentali, del diabete, ecc.). Curioso che, fino all’Ottocento inoltrato, mentre ci si faceva domande sul destino riservato ad anime affogate nella dolcezza del saccarosio, quasi nessun intellettuale si occupava dell’orrore dello schiavismo, fenomeno saldamente incardinato alla produzione e al commercio dello zucchero, drammatica sciagura sotto gli occhi di tutti. A dominare era invece, ancora, il frizzante il dibattito tra teologi e alchimisti sulle gloriose sorti della confetteria. Ritornano profetiche, a questo proposito, le parole di Petronio nel Satiricon: “Ubicumque dulce est, ibi et acidum invenies” (Ovunque c’è il dolce, lì troverai anche l’amaro).
Quando e come è arrivato lo zucchero sulle nostre tavole?
La cultura dello zucchero si è sviluppata seguendo lo sviluppo della sua coltura. Prima il Medio Oriente e la Persia, poi l’Impero arabo, il sud del Mediterraneo. Poi, quando questa coltura, più tardi, dopo la conquista dell’America, si estenderà a Porto Rico, Cuba e in Giamaica e ai paesi colonizzati tra il XVI e l'inizio del XVII secolo, la cucina europea del Rinascimento e dell'età barocca potrà permettersi di utilizzare in ogni portata – destinata a nobili e a ricchi borghesi – un profluvio di zucchero. Ai contadini resterà, fino almeno alla fine del Settecento, solo, di quando in quando, il sapore del miele. Lo zucchero riuscirà a eclissare il miele, e a conquistarsi un’ampia fetta di mercato, solo con l’aumentato potere d’acquisto dei consumatori, nei decenni precedenti la Rivoluzione francese grazie all’industrializzazione della sua produzione, che ha permesso, soprattutto a partire dall’XIX sec., di proporlo alle masse a basso costo.
Ma cos'è lo zucchero, da dove viene?
Lo zucchero è C12H22O11. La formula molecolare dello zucchero è il saccarosio, un composto chimico organico, della famiglia dei glucidi disaccaridi, presente in natura nella frutta e nel miele. Quello che acquistiamo è estratto dalla barbabietola da zucchero (soprattutto in Europa), e dalla canna da zucchero (nel resto del mondo). Viene anche prodotto artificialmente, soprattutto per essere impiegato nell'industria dolciaria e pasticciera. Veniva dalla natura, lo zucchero. Oggi viene dalla chimica. Le ricerche sulla stevia ci fanno sperare che si torni alla natura.
Quanti tipi di zucchero conosciamo?
Zucchero raffinato: dalla barbietola, lavorato attraverso decolorazione e pressatura, per ottenere i granelli fini e brillanti. In genere contiene additivi.
Zucchero biologico: dove, tra la raccolta della canna da zucchero e il confezionamento, non vengono utilizzati fertilizzanti né additivi chimici.
Zucchero a velo: zucchero bianco raffinato, ridotto in polvere, impiegato per fare dolci.
Zucchero integrale di canna: dalla canna da zucchero sottoposta a spremitura e asciugatura; non è né raffinato né sbiancato e non dovrebbe contenere additivi.
Zucchero grezzo di canna: è raffinato, ma non completamente sbiancato. Ha cristalli sono più grandi e scuri.
Lo zucchero che consumiamo oggi, è lo stesso che si consumava in passato?
A partire dalle crociate lo zucchero ha iniziato ad arrivare abbondante a Venezia, come una delle tante spezie, e a diffondersi da lì per tutto il mondo cristiano. Venezia, dal '400 al '700, resta il più importante centro di raffinazione e commercio dello zucchero proveniente dall'Oriente. L'arte dei "rafinatori da zucaro" era protetta da leggi che vietavano ai membri della corporazione di esercitare il loro mestiere "in terre aliene". La progressiva copiosità di zucchero sui mercati emargina progressivamente l’uso del miele nella preparazione di molte vivande e cambia l’identità di una cucina nobiliare che continuava, da secoli, a non dare alcuna precisa posizione nel menu al sapore dolce e che continuava a fonderlo con l’agro e con altri diversi sapori.
L’Europa scopre così le caratteristiche e le forme dello zucchero (in pani a forma di tronco di cono, in polvere, candito, raffinato, rosato, violato, ecc.) e inizia a farne uso, con regolarità – solo nelle famiglie benestanti ovviamente – già a partire dalla metà del XIII secolo. Una curiosità: in pieno Seicento, in Europa, s’inizia a parlare di una particolare tonalità di colore blu, chiamata “carta da zucchero”. È un blu con una gradazione più scura del blu ardesia, molto simile al blu mirtillo. Il nome di questa carta deriva dal fatto che, dal 1600 fino a circa alla metà del 1900, il packaging dello zucchero è un foglio di carta blu. In origine per realizzare la carta erano utilizzate, com’è noto, materie prime povere, soprattutto stracci e impasti di paglia, che lasciavano sui fogli macchie e irregolarità. Fin dal 1400 erano partiti i primi tentativi di colorare la carta con tinte celesti che ne attenuassero le irregolarità e nascondessero le macchie. Si passò poi, nei secoli XVI e XVII, ad “azzurrare” la carta con estratti vegetali, in particolare con l’indaco, il guado e il campeggio e, più tardi, con sostanze minerali quali il blu di Prussia e l’oltremare, che diedero alla carta quella particolare tonalità nota, appunto, come “carta da zucchero”. La carta di quel particolare colore blu diventò presto sinonimo di pregio e finì, a metà del Seicento, per essere utilizzata per impacchettare prodotti pregiati come zucchero, spezie e tabacco. Dal 1857, quando fu elaborata la mauveina (l’attuale fucsina), si sostituirono, anche per la carta, i colori naturali, estratti da minerali e vegetali, con nuovi coloranti organici sintetici. Ma, per quel particolare tono di blu, diciamo ancora “blu carta da zucchero”.
Il miele invece è stato una scoperta precedente, è vero?
Le prime tracce di arnie costruite dall’uomo risalgano al VI millennio a.C. circa. I dati più antichi conosciuti sull’apicoltura sono quelli scoperti da Hernandez Pacheco nel 1921, su pitture rupestri nelle Grotte del Ragno (Cuevas de la Araña) di Bicorp, presso Valencia, in Spagna. Queste raffigurano un uomo stilizzato, appeso a liane, che raccoglie miele. Sono la più antica raffigurazione dell’uomo in atto di raccattare miele e risalgono a 7000 anni prima di Cristo. Nei dirupi di questo territorio, e nel grande Paredon de la Rebolia, abbondavano gli sciami e le api nidificavano nelle crepe delle rocce. Anche nella Torah si parla di miele raccolto tra le crepe delle rocce: “Se il mio popolo mi ascoltasse, se Israele camminasse per le mie vie ( …) lo nutrirei con fiore di frumento, lo sazierei con miele di roccia". Non dimentichiamo l’importanza dell’uso terapeutico del miele che è molto antico. Sono due frammenti di ceramica scoperti in Irak, a Nippur, tra il Tigri e l’Eufrate, la cui datazione stimata è di circa 2100-2000 a.C., i più antichi documenti che fanno riferimento al miele usato come farmaco. Sono scritti in lingua sumerica, ed elencano medicine e unguenti a base di miele e cera.
Che l’uso terapeutico del miele fosse più rilevante di quello alimentare non deve sorprendere. Anche in Oriente, in India, ad esempio, la medicina ayurvedica considerava il miele antitossico, regolatore, purificante, afrodisiaco, dissetante, vermifugo, refrigerante e cicatrizzante e, solo in seconda istanza, anche un alimento. Nei Veda il miele è il “principio fecondatore”, sorgente di vita e di immortalità. Secondo gli egiziani faceva benissimo. Il Papiro Ebers testimonia che il miele era l'ingrediente più usato in medicina, sia per uso esterno che interno. Il miele curava mal di stomaco, ritenzione urinaria, ferite, ustioni, irritazioni cutanee e malattie degli occhi. Anche lo zucchero – che arriverà in Europa portato dagli arabi, durante il Medioevo – figura, fin dal XII secolo, nelle ricette per i malati e ha fama di straordinario medicinale ricco di notevoli virtù. Addolcisce le infiammazioni, si diceva, e veniva impiegato per curare le ferite e come collirio per gli occhi, ma lo si consigliava anche come lassativo o anche in supposte o in polvere per clisteri. Poi, quando diventa una spezia rara e una preziosa, acquista nche virtù culinarie. Venduto dagli speziali, per il suo costo elevato era impiegato come condimento, al posto del miele, solo nelle cucine dei nobili.
Qual è la sua etimologia, e quante sono le parole che derivano dalla dolcezza?
Il nostro termine miele, come anche la parola melodia, sono legati al mélos greco (sinonimo di canto), il quale, a sua volta si collega al termine neutro indoeuropeo mĕl, miele. Zucchero deriva invece dall’arabo sukkar (lemma indiano di origine greca σάκχαρον (fonte Treccani); a sua volta dal persiano säkär; e dal sanscrito çárkara, in origine grani di sabbia, ghiaia, poi zucchero, da cui il latino medievale saccaron e il greco sákcharon. Il termine “dolcezza”, a tutte le latitudini, è sinonimo di affetto, amabilità, bontà, clemenza, cortesia, delicatezza, docilità, garbo, gentilezza, mansuetudine e tenerezza. Una musica particolarmente soave e armonica è chiamata melodia, termine che, come abbiamo visto, ha un preciso etimo legato al miele.