“L’ultimo ghiaccio” diventa opera d’arte. Carlo Ferrari festeggia cinquant’anni di pittura con una mostra dedicata ad iceberg e paesaggi polari, ultimi baluardi di uno scenario naturale che stiamo progressivamente perdendo.
La Galleria Parmeggiani di Reggio Emilia (Corso Cairoli, 2) ospita, dal 9 novembre all’8 dicembre 2019, “L’ultimo ghiaccio” di Carlo Ferrari, esposizione personale realizzata in collaborazione con il Comune di Reggio Emilia e i Musei Civici. Curata da Chiara Serri, la mostra sarà inaugurata sabato 9 novembre alle ore 17.00.
Noto per i papaveri rossi, dipinti per velature successive, Ferrari presenta alla Galleria Parmeggiani una nuova serie pittorica, esito di un percorso condotto con grande libertà attraverso i colori e i materiali, con lo sguardo proteso al contemporaneo e alla società in cui viviamo. Del resto per l’artista il legame con l’attualità non è mai stato secondario, anche nel momento in cui esso era perseguito attraverso sovrapposizioni semantiche e trasferimenti di significato.
Come scrive la curatrice, «Certamente Ferrari non è il primo artista che realizza un dipinto il cui contenuto evoca scenari glaciali (pensiamo a “Il mare di ghiaccio” di Caspar David Friedrich, agli iceberg dello statunitense Frederic Edwin Church, o ancora alle esperienze dell’Iperrealismo), ma le sue opere presentano un carattere di interessante originalità: la massa di ghiaccio è estrapolata dal contesto, quasi fosse l’ultimo baluardo di uno scenario naturale che stiamo progressivamente perdendo. Il fondo uniforme – che esso sia nero così come era per i papaveri, oppure bianco o blu cobalto – rende, infatti, l’immagine onirica e surreale. La tecnica minuziosa ritrae il dato naturale, esito di un’approfondita ricerca iconografica. Il fondo lo rende sospeso. Perdiamo ogni coordinata spazio-temporale e ci chiediamo se quel blocco di ghiaccio esista realmente o sia piuttosto lascito di una memoria condivisa o, ancora, dell’immaginazione dell’autore. Dipingere il ghiaccio corrisponde a preservarne eterna memoria. La pittura ad olio rende immortale, o presunto tale, ciò che è fragile e corruttibile, interpretando il desiderio dell’artista di tutelare non tanto il proprio presente, quanto il futuro delle generazioni a venire».
Il percorso espositivo è completato da un rapido excursus attraverso la produzione del passato, dai lavori degli anni Settanta, in cui l’uomo era al centro della scena con il suo carico di dolori e fatiche, alle opere realizzate a partire dalla seconda metà degli anni Novanta, in cui la figura umana scompare definitivamente ed è sostituita da petali ricolmi di luce. Catturata dalla bellezza dei papaveri, l’attenzione dello spettatore si concentra successivamente sulle simbologie sottese al fiore, memoria del sangue versato sui campi di battaglia, ma anche metafora di resistenza e rigenerazione.