La narrazione può avvenire attraverso parole, immagini e simboli. Pensiamo all’utilizzo spasmodico che nella contemporaneità facciamo delle emoticons nell’inviare o nel rispondere sinteticamente a brevi messaggi. Crediamo riescano a esprimere al meglio i nostri stati d’animo; potenzialità data dalla caratterizzazione puntuale di ognuna di esse. Ci riconosciamo, insomma.
È diverso, invece, quel che avviene quando guardiamo immagini stereotipate della realtà; non penseremmo mai di poterci identificare, di poter ritrovare il nostro stato d’animo. Chi di noi potrebbe mai specchiare la propria storia nell’omino che attraversa la strada incorniciato da un triangolo rosso, immagine che popola – inconsciamente – il nostro immaginario visivo da sempre? Sembrerebbe mancare loro un’anima, qualcosa che li faccia vibrare, che li renda materia viva. E non semplice metallo, freddo al tatto e allo sguardo. Il “taglia e cuci” operato da Fernando Costa (Sarlat, 1970) dona uno sguardo alternativo a questa percezione.
Una volta che penetriamo il suo immaginario, i suoi lavori, le sue chiavi di lettura, camminare per strada, incrociare i cartelli stradali, osservarli non sarà più la stessa cosa. Già. Fernando Costa, artista di origini portoghesi ma naturalizzato francese, utilizza i cartelli stradali, i simboli alfanumerici nonché i pittogrammi che li popolano, per raccontare, fare memoria, denunciare e rendere omaggio. Una poetica inedita, dove un’apparente leggerezza creativa si affaccia al mondo attraverso materiali dal peso non indifferente. La storia, non semplice, che segue da sempre l’artista, non ha minato il suo entusiasmo, la sua perseveranza e la sua semplicità. E qui, volutamente, se ne celano alcuni passaggi, proprio per dare evidenza alla creazione in quanto tale, senza far leva su alcun tipo di pietismo che potrebbe minare l’obiettività dello sguardo vergine nei confronti dei suoi pannelli.
Fernando è adolescente quando vede per la prima volta l’opera di César (César Baldaccini). Ne rimane colpito nel profondo, senza saperlo. Per anni però la vita lo porta su altre strade: lavora in un ristorante e, successivamente, come marinaio sulla Queen Elisabeth II. Una domenica, una come tante, succede qualcosa. È il suo giorno libero, può scendere dalla nave. C’è il sole - non lo sappiamo con certezza, ma possiamo immaginarlo - e su un prato diverse famiglie sono intente a fare un pic-nic. Stuoini a terra, thermos, bicchieri e sandwich (siamo in America). Una però, per motivi di spazio, o semplicemente di comodità, sta apparecchiando su un cartello stradale. L’immagine la possiamo ricreare senza troppi problemi nella nostra mente, riusciamo addirittura a percepire le ammaccature della latta, i riflessi del sole, la vernice scolorita, l’equilibrio instabile; con ogni probabilità poggiava su un sasso o qualcosa di simile. Lì la visione. César torna alla mente, ma il pensiero, veloce, va oltre. Se allo scultore francese Fernando deve l’idea del metallo, del suo assemblaggio, la materia, quella, è nuova. Così come il modo di trattarla.
Costa torna in Francia e inizia a cercare un modo per racimolare cartelli stradali. La missione non si presenta come impossibile e da lì prende vita la sua parabola artistica. Una “reincarnazione spirituale”, o semplicemente il caso, vede la nascita di Costa scultore lo stesso anno della morte di César, in quel 1998, oggi non troppo vicino. Se il “la” Fernando continua ad attribuirlo, con gratitudine non scontata, al più noto artista, è altrettanto vero che tutto quello che ha realizzato in seguito è frutto del suo occhio, della sua irrefrenabile voglia di collezionare cartelli stradali e di riciclarne i ritagli, tutti, proprio tutti, ad eccezione di quelli più piccoli di un centimetro quadrato.
È passato ormai un ventennio dalle prime saldature compiute dall’artista; opere d’arte intense, dove tutto, proprio tutto, trova una motivazione e una giustificazione. Il risultato è chiaro, nella sua mente e nella sua potente immaginazione, sin dall’inizio. Nel caso il primo sguardo lasciasse disorientati, la spiegazione di Fernando riconduce alla strada maestra del significato. Davanti all’opera, o a un’immagine di essa, le sue dita si muovono con velocità e determinazione: ogni simbolo acquista una vibrazione, un senso. E tutto appare dopo qualche minuto chiaro. Chi lo ascolta non può che essere sorpreso, a tratti meravigliato, dalla lucidità dei particolari, dalla scelta delle storie da narrare sul metallo, dai dettagli solo apparentemente secondari. Tutto narra, tutto è narrazione. È questo il caso, per esempio, dell’opera Abbey Road. Tutti abbiamo in mente l’immagine del famoso disco dei Beatles, ma ben pochi di noi hanno gli strumenti per decifrare i singoli indizi presenti sul pannello. Fernando riporta dettagliatamente l’intera vicenda, dalla data della fotografia (8 agosto 1969), scattata da Iain McMillan, alla scelta dell’immagine per la cover dell’album: si trattava del quinto scatto su sei. E ancora la data di uscita del disco (26 settembre 1969), le copie vendute (30 milioni), il riferimento a quel momento storico (le foglie di marijuana che richiamano il festival di Woodstock che ebbe luogo l’estate del medesimo anno). Le chiavi di lettura consentono allo spettatore di “mettere in moto” la narrazione, di non soffermarsi sui singoli elementi bensì di collegare il tutto, rendendolo accessibile ai più.
Non è solo l’arte in senso lato a confluire nelle opere di Costa. La riflessione sul blu di Yves Klein o sulla struttura con cui Pablo Picasso realizzò Guernica non adombrano veri e propri fatti di cronaca quali, a titolo d’esempio, la morte del ciclista Tom Simpson, durante la tappa Marsiglia-Carpentras del Tour de France del 1967. Uno spettatore gli tese una borraccia di cognac e lo sportivo, immaginando fosse acqua, trangugiò senza esitazione. Un decesso improvviso, il primo decesso filmato dalle telecamere dell’ORTF. Fernando attraverso i dettagli dei pannelli che utilizza per comporre l’opera riesce a raccontare tutto questo. L’elicottero, la telecamera, il ciclista con i suoi sponsor, ma anche l’indicazione del luogo e della pendenza del Mont Ventoux.
Fernando riscrive la storia, ma non la sua storia come spesso avviene. Scrive, descrive, illustra l’oggettivo. E i segnali stradali in questo lo aiutano. L’umanità della sua opera emerge nella scelta degli episodi da raccontare, nelle storie che vuole render note universalmente. Da qui anche un elemento di estrema democrazia: il linguaggio per immagini che utilizza unisce tutti. I suoi pittogrammi richiamano quelli di Otto Neurath e del suo “linguaggio internazionale per immagini” (ISOTYPE). L’occhio, qualsiasi occhio, ha la capacità di decifrare quello che vede. Da lì può quindi partire la comprensione: poco importa se totale o parziale, sempre di arte contemporanea si tratta!
Un’ultima opera sulla quale ha senso posare lo sguardo è il pannello dedicato a Nicole Girard-Mangin. Si tratta di un’altra creazione che chiama in causa la storia, particolare e universale al tempo stesso, e nel contempo la memoria. Nicole Girard-Mangin fu l’unica donna che durante la Prima guerra mondiale decise volontariamente di stare al fianco dei soldati, di prendersi cura dei feriti e di “abitare il fronte” come nessun altro avrebbe avuto il coraggio di fare. Nonostante l’impegno profuso non ci fu alcun riconoscimento, e la donna, abbandonata dallo Stato, optò per il suicidio. Un episodio senza speranza, come la guerra. Senza speranza, sì, ma non sterile a livello creativo, è la guerra per Fernando Costa tanto che è proprio la riflessione sulla Prima guerra mondiale, e sui fanti francesi che la combatterono in prima persona – i cosiddetti poilus, così definiti per la barba e i baffi che portavano ovviamente incolti – che connota i suoi ultimi lavori raggruppati sotto la comune denominazione Ceux de 14, dal titolo del pannello principale (richiamo esplicito alla raccolta di Maurice Genevoix). Di nuovo un simbolismo pervasivo invade le opere. Dalle dimensioni di quella principale – 2,35 metri – che fanno riferimento ai 235 cittadini di Sarlat, paese natale dell’artista, morti durante il conflitto bellico, ai colori, ai materiali (tutte le opere prendono vita da un caschetto), alla firma dell’artista che, per rispetto della Storia, è posta sul retro, in secondo piano.
Un racconto costituito da numeri, parole, pittogrammi, tutti sapientemente scelti, ritagliati e interpretati con una precisione chirurgica. Molti sono confluiti nella sua prima monografia, pubblicata da 5 Continents Editions nel 2018 (testo di Johan-Frédérik Hel Guedj), che ha il merito di presentarne una panoramica eterogenea e al tempo stesso completa. Le opere inerenti Ceux de 14 saranno, invece, oggetto principe di una pubblicazione ad hoc del medesimo editore (a maggio 2019 in libreria): i trentatré pannelli saranno ritmati dalle lettere di alcuni fanti che esprimono le loro ultime volontà, il desiderio di fare memoria e di custodire quanto avevano iniziato a costruire.