Con il presente volume si è voluto ripercorrere il rapporto di collaborazione con Nelio Sonego, anche attraverso le immagini delle mostre che si sono tenute dall’inizio degli anni Duemila e la ripubblicazione dei saggi introduttivi e dei testi, già contenuti nei precedenti cataloghi. Il materiale selezionato, sia quello storico che quello relativo alla corrente mostra, ricostruisce per punti salienti i diversi momenti del percorso creativo dell’artista, anche attraverso i testi di Francesco Gallo Mazzeo, Francesco Tedeschi, Carlo Invernizzi, Francesca Pola, Klaus Wolbert e Paolo Bolpagni. L’insieme di questi scritti restituisce una lettura complessiva dell’iter creativo di Nelio Sonego a partire dagli “Strutturali” della fine degli anni Settanta, esposti in questa occasione, e ne mettono in luce la costante ricerca sulle possibili varianti della linea e sull’incessante creazione di equilibri geometrici dissimili, che restano costanti anche nelle serie di lavori successivi. Attraverso i Rettangolare Verticale degli anni Ottanta, gli Angoarcoli degli anni Novanta e gli Orizzontaleverticale degli anni Duemila, così come nelle opere più recenti, esposte nell’attuale mostra, Nelio Sonego ha infatti continuamente ridefinito lo spazio all’interno della superficie fino a dilatarlo nell’ambiente circostante. Desidero ringraziare tutti coloro che hanno collaborato alla realizzazione di questa mostra e della presente monografia.
Tutto è somma delle parti, di continuità e diversità che si danno e si tolgono, facendo sintesi armoniche, oppure giustapposizioni stridenti, ma si tratta sempre di momenti transitivi, perché non c’è mai la stasi, la copia, la sovrapposizione, ci sono nella catena del tempo fasi di rallentamento in cui un tema sembra affermarsi come metafora di una identificazione formale e fasi in cui tutto sembra terremotare in modo catastrofico. Questa tensione è della psicologia e dell’antropologia di ciascuno di noi, ma tende a connotarsi in maniera visiva immaginaria, come semplificazione di segni, di tratti, delle colorazioni, oppure come complessità che mette insieme stratificazioni e trasversalità, quasi a figurare delle fasi cicliche rispondenti ad ispirazioni diverse (come nel caso qui considerato, di Nelio Sonego) ma capaci di acquistarsi una loro autonomia, che non è mai trascrizione del tutto intenzionale, ma ludus con una propria casualità interna, che è quella di un fare che ha un suo progetto interiore, che sfugge al progetto dell’autore, tanto che a volte (per non dire spesso) finisce per sorprendere lui stesso, oltre che noi, esprimendo una formalità che è anche vitalismo e automatismo.
1979-1980. Strutturali. Sono anni di segno a squadra, di aggregazioni formali, accompagnate da una leggerezza di tocco, che permette la visibilità di fantasmatiche vibrazioni cromatiche, partendo dal supporto fondale che partecipa al protagonismo, di semplicità e complessità, si manifesta quando si passa dall’unità alla pluralità e viceversa. La linearità è una guida alla direzione, alla spersonalizzazione emotiva del segno, come una messa in prova della possibilità di stare nell’universo del lirium, cioè di quella tracciabilità profonda che, senza saperlo, determina lo stile di un artista, che poi va ad articolarsi, anche a contraddirsi, ma è lì che si signa, come evento, accadimento, di una biologia, di una biografia.
Si tratta di una verifica grafica, impropria ma in realtà si tratta, già da subito, di pittura, perché concepita come tale e realizzata come tale, senza alcun intento didascalico, ma solo con una soffice, decisa, accentuazione contemplativa (quindi, in questo senso, al di là di ogni referenzialità apparente) classicista, votata ad una densa sospensione temporale, ad una meteorica leggerezza di corporeità, estesa dal singolo punto di partenza, fino a quello di arrivo, che è metaforico in quanto si tratta di una sosta del tutto temporanea, come la presa di fiato di una traccia, frammentata, infinita.
La luce segnaletica di Mario Nigro non è importante solo per lui, lo è per tutti noi, in quanto rende chiaro e distinto ciò che non lo è affatto, anzi, proprio perché dato per scontato, assume un ruolo di alta maieutica, di liberazione di potenzialità descrittive ed espressive, che senza la sua opera non sarebbero disponibili, per destare una volontà di mettere in chiaro, ciò che resterebbe puro fantasma della mente, auto contemplazione, senza espressione. Perché anche in questa auroralità originaria, perseguita con una imprimitura del nero o del variamente colorato sul bianco, di distinzione e penetrazione, si determina la possibilità di un discorso immaginario di nuove somiglianze. La conquista di un grado zero della scrittura metrica, dopo una fase formativa di tipo figurale, segue un cambiamento zodiacale della sua ragione d’essere e d’apparire, favorendone lo scioglimento se non in una liquidità, certamente in una sua fluidità, scioltezza combinatoria e scombinatoria, in una prova che diverrà la prova della sua vita e che tuttora segue un suo inevitabile discorso a piano inclinato, chiaramente metaforico, che sa di enigma, ed enigma è (...). Una parzialità dell’alfabeto segnico gli viene dalle sommità di Achille Perilli ma anche da tutta una galassia concettuale che è quella di Rho, Radice, Galli, Reggiani, Veronesi, ma anche Peverelli, Gian Carozzi, che sono una storia del linguaggio artistico, una sorta di humus, consapevole o inconsapevole, assimilato antropologicamente, molecola per molecola, fino ad un approdo alfabetico, che permette poi di orientarsi in tutte le direzioni, considerando sempre la fatica di un punto di partenza che, per essere proprio, singolare, distinguibile e non scansione del già detto, ha bisogno di sapere, sapere tutto, poi, dopo, assimilare, fare proprio in senso automatico, dimenticarlo, praticarlo.
Una idea in progress di spazialità che Nelio Sonego mette insieme con una intelligente, passionale fertilità, fatta di monologhi, tra lui e la carta, tra lui e la tela, governati da una bella musica, tutta tutta interiore, che lunga si stende con le sue rigalità che diventano fatti, organismi di una spazialità che non ha confini, se non quelli della mente, che hanno bisogno di punti fissi, di riferimenti. Tanto che alla fine, le verticalità, le trasversalità, diventano tessuto di una organicità astratta, in cui i significati sono potenziali e possono essere applicati ad una metafisica della metafisica, che non scende mai oltre una certa temperatura mentale e manuale, rimanendo opera aperta, affascinantissimo enigma.
Come da una a ad una zeta, si compie un arco, da una geometricità combinatoria, numerica, algebrica, ad una ornamentalità astratta, scritturale, che costituisce un grande ancoraggio alla sua inesausta sperimentazione dei semplici, degli elementari, seguendo una sua istintuale lessicologia dei fondamenti del pensiero visivo, nella mimesi della appariscenza e nella fantasia della disseminazione, che ha sempre, d’istinto, una puntualità da cui partire, per evocare una partitura che non è se non nella mente euclidea delle origini, nell’espansione pitagorica delle moltiplicazioni e si può seguire ancora con intuizioni che vengono da lontano, da Archita, da Talete, per toccare Fibonacci e Luca Pacioli, nell’aura di Piero della Francesca, nel senso che in questo inesausto lavoro dell’oggi si possono riscontrare i tratti del rapporto tra la purezza della visibilità, nell’invenzione artistica, con tutta una vulgata di conoscenza e di visualizzazione che è conoscenza, altra, alta, sublime. Inserire Nelio Sonego, in un contesto il cui humus ha dato vita alle opere di diversità, come quelle di Hans Hartung, con le sue graffianti energie dell’essenziale, capaci di essere analitiche quanto basta, paradossalmente scientifiche, eppure poetiche, di una poetica leggera, come quelle di Franz Kline che ha lasciato una tracciabilità di tutta profondità nell’immaginario, come una sonda in grado di essere sotto e sopra nello stesso momento, lasciando libero lo stylo di fare e disfare, oppure nella specularità di un Paul Klee, che è tessuta in maniera “rozza”, all’italiana si potrebbe dire, con una evidenza, di traccia profonda e di riflesso nel bordo, come quando una vena di luminosità viene ad espandersi, oppure un gruppo segnico viene a ridondarsi, per darsi una maggiore stagione di attrattività, con una fenomenica di festa, di luogo aperto all’evento, che poi non avverrà mai, come nel processo di Kafka, perché la potenzialità è una forza in se stessa e non accetta di essere messa alla prova, bastando l’evocazione, bastando la teatralità.
Un automatismo c’è, senza dubbio, post surrealista, post dadaista, post Breton, però con la stessa attenzione unita ad una grande meticolosità del gesto che segue una intenzione iniziale dell’opera, di ogni opera, perché c’è un sistema di coerenze che è di immediata percepibilità, in quanto non c’è un altrove dove si possa ripetere lo schema visivo, per cui la spazialità è un modo per dire che è “meteorologico” nel senso antico di Empedocle, con una attenzione a quelle che possono essere le schegge, le meteore, le scie, la cui materialità nel regno della lontananza le atteggia a sospensioni senza peso e forse senza corpo, perché comunque si tratta sempre di un espressionismo astratto, la cui “ragione” è data dalla sfida dell’invisibile, che è sempre in agguato ma sempre sfuggente, come uno specchio frantumato che non si lascia né reggere né correggere, perché segue un immediato dinamismo del pensiero, senza riferimenti con altri che con se stesso, oltre ogni tangibilità, oltre ogni concretezza, come se potesse esistere un segno del segno che abita dentro un pensiero del pensiero, capace di bastare a se stesso, come estasi nel sogno.
Lo vedo come un mezzo, come uno strumento, che diventa una poetica, la cui freddezza non deve ingannare, è solo della superficie della sua dimensione classica, che si offre alla contemplazione, al dialogo muto, saltando le parole in luogo dei silenzi, in una cronologia senza tempo, anacronistica se vogliamo, senza infingimenti, ai facili “mi piace” che, però, durano lo spazio di un attimo, per essere sostituiti, in una continuazione asfissiante, mentre qui si ambisce, riuscendovi, a sospendere il tempo. Da un prima a un dopo per dire che si è sempre gli stessi e che si è, contemporaneamente diversi, in quanto, nella fase iniziale, c’è una ontologia che corrisponde poi, ad una esperienza, ad una intensa storia personale.
Un prima che ha tutte le caratteristiche di un linguaggio che prova e controlla il proprio alfabeto visivo, facendo i conti con una nomenclatura che ha tutta una sua classicità, nella metafora di una scomposizione che non vuole rimanere tale, ma si appresta a diventare struttura, anche se ancora non è chiara la direzione, perché c’è una sperimentazione il cui laboratorio è in bella vista e che mette in posa tutto il proprio armamentario, in modi che sono, appunto, le fondamenta di una poetica e non causa sui.
In mezzo, c’è tutta una evidenza che si chiama Rettangolare Verticale, che si chiama, con una storpiatura neolinguistica Striangoli, oppure Angoarcoli e ancora Orizzontaleverticale, comprendendo i Libri d’artista e i singolari duetti di Carte e tele con Carlo Invernizzi, che qui non vengono prese in considerazione, per potere meglio mettere a fuoco, a partire dai raggiungimenti attuali, le specularità dei punti di partenza.
Un dopo, che corrisponde alla lunga giornata di oggi, in cui la grammatica astrattiva, che non si è mai persa, ma ha esibito le sue mille metamorfosi, testimonia di quanto possa essere espansiva ed avvolgente una organizzazione di segni che si posiziona sulla “pienezza” del bianco e diventa giostra e circo delle essenzialità, che si mostrano come toccate, come fughe, come apollinei assaggi di verità poetiche, che esse contengono in nuce, con una pluralità ornata e geometrica, che si concentra su se stessa e si stratifica, quando prima era stata d’area e di perimetro, lasciando aperta ogni opzione in regno di fantasia e ars combinatoria.