La mostra mette in relazione l’opera scultorea in cemento e acciaio corten di Mauro Staccioli (Volterra 1937-Milano 2018) con le immagini su tela, carta e tavola di Marco Tirelli (Roma, 1956). I due artisti hanno messo a punto una famiglia di forme che nel caso della scultura di Staccioli si rivolge all’esterno in un dialogo serrato con l’ambiente naturale o urbano, mentre nel caso della pittura elusiva di Tirelli, sembra indirizzarsi verso l’interiorità della coscienza e lo spazio della meditazione.
Mauro Staccioli arriva a Milano nel 1968 e qui partecipa al rinnovamento del linguaggio della scultura spostando l’attenzione dal volume dell’opera all’ambiente urbano dove essa si inserisce, spesso con soluzioni spettacolari e sorprendenti, che creano vere e proprie apparizioni di forme geometriche monumentali in un delicato equilibrio statico e paesaggistico. L’essenzialità delle forme che caratterizza il suo repertorio scultoreo si caratterizza nella continua modulazione della linea curva, ben rappresentata in mostra dalle sculture che giocano con le ellissi, i lati curvilinei e i dischi. La curvatura delle superfici garantisce alle sculture di Mauro Staccioli quella particolare tensione elastica che permette loro di relazionarsi all’ambiente, alla storia dei luoghi e alla loro fruizione da parte del pubblico. La sua scultura però non è mai mimetica ma conclamata e massiccia, nel riverbero del colore del cemento tanto quanto nella massa posta in relazione allo spazio (a proposito rimane memorabile il muro di cemento di otto metri realizzato nel 1978 alla Biennale di Venezia, un intervento che di fatto ostruiva la vista al viale d’accesso del Padiglione Italia, così come la piramide in acciaio corten di 30 metri del 2010 che sorge in Sicilia su un’altura dominante il mare nel parco-scultura Fiumara d’Arte di Antonio Presti). Altre volte le sue sculture-intervento si rivolgono all’osservatore mostrando spigoli accentuati, guglie e sbilanciamenti ottico-percettivi, a riprova di una concezione della scultura che ha definitivamente superato la forma chiusa per aprirsi invece al continuo dialogo con lo spazio, la sua storia e le tracce misteriose che lo abitano.
Marco Tirelli, allievo di Toti Scialoja e Giulio Turcato, è tra gli artisti dell’ex pastificio Cerere nel quartiere romano di San Lorenzo portati all’attenzione del pubblico internazionale da Achille Bonito Oliva nel 1984 con la mostra Ateliers. Fin dalle prime mostre nella storica galleria l’Attico di Fabio Sargentini, Marco Tirelli ha mostrato la sua particolare inclinazione a trattare la luce come una presenza che confina e si dissolve nell’ombra, dove astratto e figurativo si fondono. Nella sua pittura, come nel disegno o nella scultura, forme auratiche e austere affiorano dalla superficie o in essa affondano, e il chiaroscuro e lo sfumato magicamente individuano figure elementari che si smaterializzano nel gioco di luce e ombra, perdendo consistenza a favore di atmosfere notturne e misteriose che si generano dalla luce, e viceversa. Dalle partecipazioni alle mostre internazionali fino alle sale personali alle Biennali di Venezia del 1990 e del 2013, le opere di Tirelli mettono in scena una sorta di sospensione spazio-temporale che apre all’esplorazione dell’ignoto e in cui il silenzio meditativo non è mai vuoto, ma un’attonita atmosfera che attende di essere colta dall’osservatore e in cui vibrano tracce, segni, presenze/assenze, memorie e possibilità, illusioni e realtà. L’intervento pittorico con carboncini, inchiostri e tempere nelle opere esposte in mostra configura lo spazio del foglio o della tela come un varco che conduce alla profondità della coscienza, alla scoperta del mistero delle cose e di quell’irrappresentabile dell’oscurità, di cui però non possiamo fare a meno per dare valore alla luce stessa.