Quando le piante erano cosa sacra, pretendevano atti e parole di devozione. Fiori ed erbe medicinali erano mediatori di salute, mani divine che si offrivano in sacrificio per donare salute all’uomo. Solo sacerdoti e sacerdotesse, in origine, erano depositari dei segreti della raccolta, che si tramandavano come saperi iniziatici e univano la sapienza del gesto all’evocazione della preghiera incantatoria. Poiché cogliere la pianta significava sopprimere il suo spirito vitale, l’atto sacrilego richiedeva assenso.
Il sacerdote, che i greci chiamavano rizotomo, non soltanto conosceva le specifiche caratteristiche botaniche: era acuto di occhio, fine di olfatto, rispettoso osservatore dell’abito liturgico, della stagione di raccolta, dell’ora e del tempo balsamico. La sua azione prevedeva le dettagliatissime liturgie che sono il privilegio degli déi. Nulla era lasciato al caso: la purificazione del corpo, i singoli gesti propiziatori, di grande valore magico; il giusto orientamento e la corretta posizione al momento del taglio; la pertinenza, il materiale e la forma di lame, spade e falcetti. Tutto concorreva a preparare l’azione fulminea del taglio, che separa l’erba medicinale da quel grembo tellurico che l’ha nutrita e l’ha tenuta in vita, per consegnarla al compimento della sua natura di farmaco.
La raccolta interpreta un vero e proprio atto cosmico, che deve essere supportato dall’incantesimo della parola: l’invocazione a spiriti, demoni o dèi, eroi scopritori o protettori; oppure la preghiera, che dà voce alla commozione umana. Quando la raccoglitrice è una donna, la cerimonia assume i contorni di un rituale notturno, e l’officiante si appella all’autorità di Ecate e agli influssi astrali della luna. E quali donne sono queste raccoglitrici! La letteratura ci tramanda solo di figure splendide di una celebrità funesta: maghe farmaciste e trasformatrici, Circi e Medee fedeli ai rituali del numero tre: tre volte purificarsi, tre volte lanciare grida e invocare le stelle, la notte, la terra e gli spiriti naturali, nel nome di Ecate Triforme, maestra di tutte le magie. Nella raccolta esse anticipano i riti occulti e sapienti che proseguiranno nel calderone, dove radici, semi e fiori verranno mescolati alle mille cose indicibili che solo pochi conoscono. La magia delle herbae cantatae diventa il misterioso “abracadabra” che consente alla pianta di sprigionare la sua forza latente e di trasformarsi in medicina o in veleno. Di rilasciare il suo principio attivo, diremmo con le parole della scienza; il suo spirito, con quelle della fede; perché solo un intervento soprannaturale spiega il miracolo della trasformazione.
Nella rigidità di certi rituali di raccolta la superstizione lascia intuire esigenze di prudenza che il rizotomo applica per salvaguardare la propria incolumità. Mai posizionarsi controvento se si raccolgono erbe velenose, per evitare di inalarne gli effluvi nocivi! La tapsia, la rosa canina e l’elleboro nero provocano mal di testa e non è bene raccoglierli a lungo. Dell’elleboro, poi, pianta che purifica e cura i mali della psiche, ci dice Teofrasto: “Si ritiene che bisognerebbe tracciargli intorno un cerchio e coglierlo tenendo il volto rivolto verso est pronunciando formule; inoltre stare attenti se si vede un’aquila sorvolare il luogo, da destra o da sinistra. Infatti questo indica pericolo per il raccoglitore. Se l’aquila dovesse avvicinarsi, egli potrebbe morire entro l’anno”.
La peonia invece deve essere carpita durante la notte, perché di giorno, nel caso si venisse sorpresi da un picchio, si rischierebbe la cecità. È curioso notare la presenza di uccelli guardiani, osservatori aerei che tutelano la salute della loro erba protetta e all’occorrenza puniscono coloro che la profanano. Non si tratta di presenze malaugurali, bensì di animali totemici, che mantengono viva la tradizione antichissima dell’albero sacro, che in tutti i miti indoeuropei è abitato da animali guardiani simbolicamente contrapposti in un dialogo tra forze: il serpente, simbiotico custode della parte tellurica e ctonia, e l’uccello, celeste abitatore delle chiome. L’erba officinale in questo caso rinforza l’immaginario possente dell’antenato albero, verso il quale queste mitologie possiedono un profondo debito di riconoscenza.
Infine, non si può tralasciare la mandragora, tossica e salvifica, panacea e veleno, pianta di magia e di arti occulte. Estrarne dalla terra la radice equivaleva a disseppellire un defunto e riportarlo in vita. Con un grido acuto si separa dal grembo tellurico, così come il neonato che vede la luce; un grido che può indurre alla follia il raccoglitore, e soprattutto essere letale. Ecco perché questa pianta richiedeva particolare destrezza e precauzione: tracciare tre cerchi concentrici intorno alla sua radice, tagliarla guardando verso ovest, danzare infine intorno ad essa cantando formule d’amore. Ma gli autori antichi ci raccontano che la mandragora richiedeva anche un sacrificio di sangue per perdere il suo potere venefico e trasformarsi in farmaco. Quello di un cane, animale sacro alla dea Ecate, che veniva scelto come inconsapevole redentore della profanazione. Una fune veniva assicurata al collo dell’animale, e il capo opposto al fogliame della pianta; il cane poi, lanciato in corsa con l’allettamento di un boccone prelibato, trascinava con sé la radice, ma era subito destinato alla morte e ad essere seppellito nel luogo in cui il rito si era compiuto.
Dopo la raccolta, infatti, il sacerdote deve provvedere alla cura della lesione che ha offeso il suolo. La ferita della terra deve essere guarita con giuste offerte: nuovi semi, frutta, focacce, bagnati da libagioni, che plachino l’ira della madre privata della sua creatura. Solo allora il rito avrà riconciliato macrocosmo e microcosmo e il gesto avrà consegnato all’uomo il controllo sul mondo.