La storia dell’arte contemporanea, che ha visto l’emergere di importanti movimenti come l’Arte Povera e la Transavanguardia, non sarebbe completa se non si rilevasse il contributo di personalità del calibro di Piero Gilardi (1942). Da sempre impegnato nella ricerca di espressioni alternative alle forme più note, grazie alla sua costante indipendenza dai circuiti dell’arte, Piero Gilardi è stato una figura chiave dell’intervento artistico in ambito sociale, affermandosi sin dagli esordi per l’attenzione civile e politica delle sue opere. Profondamente influenzato dal pensiero critico di intellettuali come Michel Foucault, Gilles Deleuze, Herbert Marcuse, Félix Guattari e Ivan Illich, Gilardi ha indagato una nuova prospettiva della pratica artistica in ambito biopolitico, proponendo nuovi linguaggi e composizioni che spingessero il pubblico ad osservare criticamente e ad affrontare attivamente le stringenti problematiche poste dalla crisi ecologica e sociale. Questa mostra racconta il percorso di un maestro per cui arte e vita si identificano profondamente e diventano impegno militante, a favore di una creatività compiuta nell’ambito di un’azione collettiva.
Nel 1966 Gilardi espone per la prima volta il Tappeto-Natura, opera che lo renderà immediatamente celebre a livello internazionale. Nei Tappeti-Natura, e nelle opere di questo periodo come Igloo (1964), l’artista mette in scena una natura artificiale seguendo però i dettami del realismo. Nell’idea dell’artista, queste sono soprattutto opere di cui fare “esperienza”: l’oggetto non è, infatti, opera da contemplare passivamente, bensì dispositivo estetico che implica una dimensione relazionale, coinvolgente e partecipativa. L’oggetto artistico perde, così, la sua aura a favore di una missione sociale che ne completa il valore attraverso l’uso e la funzione. Un’arte abitabile, per parafrasare la celebre mostra a cui prende parte Gilardi, o addirittura indossabile, come testimoniano alcuni costumi in gommapiuma disegnati e realizzati in quel periodo, e le “maschere” che da lì a breve Gilardi inizierà a progettare per le manifestazioni. Tra il 1967 e il 1969 Gilardi interrompe la produzione dei suoi celebri Tappeti-Natura e, con essa, l’approccio oggettuale all’arte, in linea con i processi di de-materializzazione dell’opera e di critica al sistema capitalistico, al centro delle ricerche di numerosi artisti in quegli anni. Dal 1969, e per un lungo periodo, l’artista torinese si dedicherà soprattutto ad un’attività teorico-politica militante, considerata come l’unica possibile, fedele alla sua linea.
Alla fine degli anni Sessanta Piero Gilardi si allontana dal mondo dell’arte ufficiale portando avanti un’attività teorico-politica, capace di rispecchiare il suo pensiero, esprimendo l’idea di un’azione estetica che possa entrare nella vita reale, senza esaurirsi nello spazio dell’arte. Negli anni Settanta partecipa ad attività politiche e sociali, creando scambi e animazioni culturali, stabilendo un ruolo come attivista e militante fortemente significativo. Ispirandosi alle avanguardie storiche, l’artista torinese si concentra sulla creazione di manifesti e maschere per le proteste di piazza. Si tratta di opere monumentali e al contempo satiriche, che scatenano l’entusiasmo popolare trasformando aggressività e rabbia in orgoglio e momento di festa. Spesso, infatti, le manifestazioni di piazza diventano veri e propri festival popolari: la strada — normalmente controllata dal potere dello stato capitalista — viene temporaneamente occupata e trasformata in zona franca e autonoma, dove ciascuno ha il diritto di esprimersi, esercitando libertà di pensiero. Proprio qui ha origine quella carnevalizzazione del mondo che per Gilardi — come per il filosofo e critico letterario russo Michail Bachtin — è elemento imprescindibile per sovvertire l’ordine prestabilito, profanare i templi e ribaltare i luoghi della cultura e del consumo, i ruoli e le attribuzioni sociali.
Negli anni Ottanta, Piero Gilardi intuisce che la dimensione corale e partecipativa, insita nello sviluppo delle nuove tecnologie, può implementare la potenzialità dei suoi dispositivi estetici e approda perciò a un nuovo capitolo del proprio percorso artistico: quello da lui stesso definito New Media Art. Le nuove tecnologie, infatti, amplificano i concetti sui quali l’artista lavora sin dai suoi esordi: la relazione, la partecipazione e la multisensorialità, considerati strumenti per indagare i temi da sempre al centro della sua ricerca, con uno specifico sguardo al rapporto tra natura e progresso scientifico-tecnologico. A partire dalla fine degli anni Ottanta, in anticipo sulle questioni che da lì a poco avrebbero investito il dibattito sulla società tecnologica e informatica, gli interventi teorici e le installazioni di Gilardi affrontano i temi più controversi dell’era informatica. Presentate sempre come esperienze ludiche, le sue opere trattano di realtà virtuale e interattività, del rapporto tra uomo e macchina e della pervasività mediatica, delle conseguenze sulla democrazia diretta e del controllo sociale, in una visione entro cui le relazioni individuali sviluppano la coscienza di un nuovo Io, molteplice e collettivo, orientato verso una nuova e più equa coscienza ecologica, di maggiore giustizia sociale.
Sin dagli esordi negli anni Sessanta, Gilardi si contraddistingue nella sua generazione come un punto di riferimento per le conoscenze sugli artisti e sulle tendenze internazionali, a causa dei frequenti viaggi in Europa e negli Stati Uniti. Nello stesso periodo instaura una collaborazione con varie riviste d’arte — tra cui l’italiana “Flash Art”, l’americana “Arts Magazine”, la svedese “Konstrevy” e la francese “Robho” — che ospitano, oltre ai suoi articoli d’informazione, le sue riflessioni critiche e teoriche sulla transizione della società da industriale a postindustriale. Alla fine degli anni Sessanta è, inoltre, consulente di curatori internazionali del calibro di Harald Szeemann e Wim Beeren, per progetti espositivi che diverranno storici, come le mostre “When Attitudes Become Form” (Kunsthalle, Berna 1969) e “Op Losse Schroeven” (Stedelijk Museum, Amsterdam 1969). Tale attività continuerà anche negli anni successivi, ma sarà sempre meno riferita al mondo dell’arte per abbracciare invece sempre di più la dimensione politico-militante e la riflessione teorica sui temi della sostenibilità ambientale, della biopolitica e delle conseguenze insite nello sviluppo tecnologico. Il PAV – Parco d’Arte Vivente, realizzato nel 2008, è il suo più recente progetto artistico-culturale: un’opera collettiva costituita da un grande parco nella periferia di Torino, in cui gli artisti vengono invitati a creare installazioni site-specific, ponendo al centro della propria attività temi da sempre cari a Gilardi, come la sensibilità ecologica, l’educazione estetica e l’inclusione sociale.
In 1966, Gilardi exhibited his TappetoNatura for the first time, and it was this work that brought him overnight fame at the international level. In these Nature-Carpets and in other works of this period, such as Igloo (1964), he presented an artificial form of nature while adopting the principles of realism. In the artist’s mind, the Tappeto-Natura was first and foremost a work to “experience”: the object is indeed not work to be contemplated passively, but rather an aesthetic device that involves an absorbing, participatory relational experience. This meant that the artistic object lost its aura and acquired a social mission that completed its value through its use and function. This was an inhabitable art — to paraphrase the title of the famous exhibition in which Gilardi took part — or even wearable art, as we see in some foam rubber costumes designed and made during this period, as well as the “masks” that Gilardi would soon start creating for the street protests. Between 1967 and 1969, Gilardi stopped working on his famous Tappeti-Natura and also on his object-based approach to art. This was in line with the processes of dematerialisation of the work and of a criticism of the capitalist system, which were at the heart of much of the work being carried out by many artists in those years. From 1969, and for a long time after that, Gilardi worked mainly on his militant theoreticalpolitical activities, which at the time were the only ones that fully reflected his thoughts.
In the late Sixties, Piero Gilardi moved away from the world of official art and worked on the only form of theoretical-political activity that reflected his thoughts at the time: the need to express the idea of an aesthetic action capable of entering real life without petering out in the field of art. In the 1970s, he was involved in social and political activities, creating cultural exchanges and events while his role as a political activist and militant came to the fore. Taking inspiration from the historic avant-gardes, the Turin-born artist concentrated on creating posters and masks for street protests. These were monumental but also satirical works, and they were loved by the people, for they transformed aggressiveness and anger into pride and cheerfulness. Sometimes, the street protests became popular festivals, and the streets — normally controlled by capitalistic regime — were temporarily taken over and transformed into autonomous free zones, where everyone had the right to express themselves. This led to the carnivalisation of the world that, for Gilardi — as also for the Russian philosopher and literary critic Mikhail Bakhtin — was an essential means for desecrating and overturning the temples of culture and consumption, as well as roles and social attributions.
Right from his debut in the Sixties, Gilardi distinguished himself from his generation as the person to turn to for knowledge about artists and international currents, for he travelled around Europe and the United. He started working with various art magazines — including the Italian Flash Art, the American Arts Magazine, the Swedish Konstrevy and the French Robho — which published not only his news articles but also his critical and theoretical reflections on the transition of society from the industrial to the post-industrial age. At the end of the Sixties, he was also a consultant to international curators such as Harald Szeemann and Wim Beeren for exhibition projects that made history, like the “When Attitudes Become Form” (Kunsthalle, Bern, 1969) and “Op Losse Schroeven” exhibitions (Stedelijk Museum, Amsterdam, 1969). He continued this activity also in later years, but with less reference to the world of art and more of an opening up to the political, militant dimension, and with theoretical reflections on environmental sustainability, biopolitics and the consequences of technological development. The Park of Living Art (PAV) built in 2008, is his most recent artistic and cultural project: a collective work consisting of a large park in the suburbs of Turin, where artists are invited to create site-specific installations, and which has ecological awareness, aesthetic education and social inclusion at the heart of its activities.