Le foreste sono state i primi santuari dell’umanità: luoghi iniziatici, ricchi di energie misteriose, nei quali inoltrarsi con il deferente rispetto dovuto a ciò che è sacro. Dedali in cui smarrirsi e ritrovarsi. Le alte colonne dei templi si sono ispirate ai fusti svettanti: un tentativo di addomesticare con le geometrie del pensiero razionale il caos prolifico e disordinato della natura.
C’è stato un tempo in cui violare un bosco o abbattere un albero sacro era considerato un atto empio. Il poeta latino Lucano racconta un episodio emblematico, in cui Cesare conduce il proprio esercito sul limitare di una selva inviolata, considerata sacra dagli abitanti del luogo, con l’intenzione di procurarsi il legname necessario per le opere di fortificazione. Lecci, ontani, querce e cipressi si stagliano avvolti da un silenzio profondissimo e mistico; il comandante ordina ai suoi uomini di mettersi al lavoro con le accette ma questi, guerrieri abituati a troncare vite umane, esitano: temono la vendetta degli spiriti che dimorano nel bosco. Solo quando Cesare in persona scioglie gli indugi, scagliandosi per primo su una quercia e caricando se stesso del peso dell’azione sacrilega, i soldati si convinceranno a eseguire l’ordine impartito.
Che le forme arboree possedessero un’anima, un proprio respiro, che sussurrassero parole, era convinzione imprescindibile della religiosità primitiva. Le piante si ritenevano abitate da entità delicate ma potenti, femminili, eteree e allo stesso tempo sensuali: le ninfe, presenze arcaiche, protagoniste di un immaginario di confine tra le antiche religioni animiste e culti più recenti, educati dal fluire narrativo del mito. Queste fanciulle silvestri, che evocano il ricordo di età più vicine allo stato di natura, sono teofanie botaniche cristallizzate in figura umana: giovani donne che inseguono una vita selvaggia e libera, che sovente, ma non sempre, rifuggono dalla compagnia maschile. Nel mito greco, molte sono compagne di giochi e di caccia di Artemide, la dea vergine, alla quale sono votate; vestono il corto chitone maschile, calzano sandali da cacciatrice, faretra e frecce, e percorrono con passo agile le alte vette dei boschi, le selve e le rive dei fiumi, alla ricerca di prede.
Una ninfa appartiene in modo viscerale al suo elemento. Come spirito arboreo, vive un legame simbiotico con il proprio albero: prende vita con esso e con esso si spegne, inaridendosi quando la corteccia si dissecca al termine del suo ciclo vitale, o seguendo il destino della pianta se questa viene abbattuta da mano violenta. Ognuna si caratterizza per appartenenza: cariatidi sono le ninfe del noce, meliadi quelle del frassino, melie quelle del noce, eliadi quelle del pioppo. Le querce, alberi possenti e oracolari, erano possedute da due diverse “famiglie”, le driadi e le amadriadi. Le prime avevano dimora nel cuore della pianta, quasi ne fossero vigili sacerdotesse ma, poiché non partecipavano visceralmente al suo ciclo vitale, potevano abbandonarla in caso di pericolo; si riteneva che fossero in grado di vendicare la violazione dell’albero, ragione per cui, prima di abbattere una quercia, un sacerdote era incaricato di compiere liturgie propiziatorie per placare e allontanare la ninfa. Le amadriadi, invece, vivevano di un’intima partecipazione alla forza vitale del loro doppio arboreo, come spiega il suffisso “ama” (“insieme”) che precede il loro nome: poiché la loro esistenza era minacciata insieme a quella vegetale, ne erano le più gelosi custodi, e la loro maledizione la più temibile.
L’antica venerazione per le forme vegetali è confluita nella ricchissima raccolta di mitologie metamorfiche della tradizione greca. Le storie di metamorfosi botaniche raramente coinvolgono direttamente gli dèi olimpici: quasi sempre la vicenda narrativa è innescata da un desiderio di appropriazione, dall’innamorato di un dio per la fanciulla, e si scarica sull’evento trasformativo che consente di innescare una nuova relazione simbolica tra la pianta e la divinità. Numerosi sono i miti che raccontano il passaggio di stato delle ninfe in alberi, arbusti, fiori o erbe medicinali; spesso il dio innamorato è Apollo, nume solare e razionale, usurpatore simbolico. Apollo è un amante possessivo: insegue le sue amate attraverso gli scenari silvestri che sono il loro regno, e queste fuggono veloci, tentando strenuamente di evitare l’abbraccio del dio e di mantenere intatta la propria integrità. Solo nel momento in cui le forze le abbandonano rallentano la propria corsa: eppure nemmeno allora si arrendono e rivolgono una supplica disperata alla Madre Terra, benevola protettrice, chiedendo di essere liberate da quella forma umana che, seppure desiderabile, è causa della loro persecuzione. L’antica dea accoglie la preghiera, riportandole alla primigenia natura vegetale.
Molte vicende si dipanano seguendo questo schema, che nasconde ricchissimi intrecci simbolici. C’è la storia di Leucotoe, che si trasforma nella pianta dell’incenso, aroma liturgico; quella della bella e gelosa Clizia, destinata ad amare il nume solare nelle sembianze botaniche dell’adorante girasole. E c’è Dafne, che dopo un’estenuante fuga cambia la sua natura in quella dell’odoroso alloro. Nell’attimo cosmico di ogni metamorfosi si consuma l’intensa partecipazione del connubio struggente tra corpo mortale e vita vegetativa: le membra vengono avvolte da profondo torpore, i capelli si allungano in fronde, le braccia in rami; i piedi sviluppano intricate radici che penetrano il suolo, il volto scompare tra le fronde di una chioma verdeggiante. La forma umana è fagocitata in quella vegetale, ma anche avvolto da fibre il cuore palpita sotto la corteccia. Apollo ha comunque ottenuto il suo bottino: non l’amore delle fanciulle, ma le nuove piante che ne risultano germinate, con il loro patrimonio simbolico e medicinale, che diventano sua proprietà. Lo stupro, metafora di una violazione più vasta e profonda, si è compiuto: uno stupro culturale, religioso, addirittura politico, che trascina i relitti di una civiltà precedente nel nuovo ordine di valori. La polarità maschile si impone su quella femminile, la addomestica e ingloba; la riveste dell’abito del logos attraverso la comprensibile linearità di un racconto. Alle antiche divinità arboree viene concesso il privilegio di essere amanti, nel migliore dei casi sacerdotesse, del nuovo dio.
Eppure, a uno sguardo attento, boschi e selve ci sembreranno ancora posseduti da quegli spiriti antichi. Le vestigia di un passato che tutto ammantava di sacro non sono del tutto scomparse; possiamo sentirne i sussurri attraversare le fronte, echi sottili e fuggenti. Sono ancora lì, ad abitare quelli che un tempo furono chiamati templi degli immortali. Ma allora, torneremo mai a credere che abbattere una foresta equivalga a violare le ninfe che vi dimorano?