Qualche volta i destini umani sfuggono anche al controllo degli dèi, perché sono soggetti a forze ben più grandi di quelle che può padroneggiare un nume. Infatti, anche le divinità sono impotenti di fronte all’ineluttabilità del fato e spesso si vedono costrette a prendere atto della sua ferrea necessità e a subirne le amare conseguenze. Come illustra il mito tenero e struggente che racconta la nascita del primo giacinto.
Giacinto, figlio di Ebalo, era un giovane di incomparabile bellezza e godeva del privilegio di essere il compagno prediletto di Apollo. In cambio della sua amicizia il dio gli aveva offerto doni magnifici, concedendogli di imparare l’arte della profezia e insegnandogli le discipline di cui era protettore: la musica, il tiro con l’arco, la destrezza nel suonare la lira; gli aveva promesso, inoltre, di condurlo a visitare tutte le terre conosciute sul suo carro trainato da cigni. Tuttavia anche Zefiro, il vento di ponente, era rimasto incantato dalla bellezza del ragazzo: perdutamente innamorato, si struggeva di gelosia nell’osservare i due amici impegnati nelle più piacevoli attività.
Un giorno, nell’ora in cui il sole si trova a metà del suo percorso, Apollo e Giacinto si preparavano a confrontarsi nel gioco del lancio del disco: il dio desiderava insegnare all’amico qualche trucco di destrezza e lo invitava a osservare con attenzione la sua tecnica di lancio. Dopo aver soppesato e bilanciato il disco, lo scagliò nell’aria con la forza invincibile che solo un nume può possedere: quello in un attimo raggiunse le nubi e le squarciò, e dopo un’attesa prolungata riapparve per schiantarsi pesantemente al suolo. Giacinto, nell’eccitazione del gioco, si lanciò sventatamente in direzione dell’attrezzo con l’intenzione di afferrarlo, ma Zefiro, che osservava con disprezzo la scena, soffiò una folata malevola nella direzione opposta alla traiettoria, facendo rimbalzare violentemente il disco sul viso del ragazzo. Giacinto impallidì, accasciandosi, mentre il suo sangue intrideva il suolo. Apollo, sconvolto, accorre: quella ferita sembra accusarlo direttamente dell’incidente fatale. Prende tra le braccia l’amico cercando di rianimarlo: lui, che è il protettore delle arti mediche, fa appello a tutto il suo sapere, ma nessuna tra le erbe salutari a lui consacrate può trattenere la vita che già si è dissolta, e il dio sa in cuor suo che c’è un alto prezzo da pagare quando si ama una creatura mortale. Quegli occhi, che mai prima avevano pianto, versano lacrime inconsolabili di tristezza per quel ragazzo derubato della propria giovinezza.
“Come quando in un giardino ben irrigato si spezzano gli steli
di viole, papaveri o gigli dai rigidi stami gialli,
i fiori immediatamente appassiscono e, incapaci
di reggersi, piegano la corolla appesantita verso terra:
così gli occhi del morente si chiudono e il capo non ha più forza
di reggersi sul collo e si reclina su una spalla”
Nel momento del trapasso si profila il destino floreale di questo giovane delicato. Apollo, infatti, nella commozione del compianto promette all’amico gloria eterna, ed ecco che il miracolo si manifesta: il sangue che imbeve la terra prende vita e genera un fiore, soave e puro come il giglio ma di uno splendido colore purpureo: Apollo allora traccia sui petali, di sua mano, le lettere “AI AI”, che in un ricamo fanno eco al suo doloroso cordoglio. Avrebbe onorato l’amico con la lira ogni anno, nel tempo in cui la primavera scaccia l’inverno, quando Zefiro torna a spirare sui giardini in fiore, pur senza abbandonare il timore che il vento dell’ovest, pazzo di gelosia, si accanisca anche sul fiore, memoria del fanciullo amato.
Il mito di Giacinto è un’autentica sciarada botanica, tutta da scoprire fra i risvolti della vicenda mitica. I due amici giocano col disco, che evidentemente è il disco solare, teofania di Apollo ma anche fonte vitale di germogliazione per il fiore. Eppure, esso è anche la causa della morte di Giacinto, e ciò avviene nel momento in cui il disco fa ritorno al suolo, ovvero nel periodo dell’anno in cui il sole è più basso sulla linea dell’orizzonte, all’arrivo della stagione invernale: ecco l’attimo che decreta la morte del fanciullo/fiore Giacinto, nell’intreccio drammatico in cui natura e vita umana si fondono. Il ruolo di Zefiro, il vento di ponente, è altrettanto significativo: innamorato geloso, nell’invenzione narrativa, ma nella manifestazione atmosferica folata violenta, insistente e portatrice di pioggia, crudele contendente della vita floreale.
La fantasia letteraria racconta che Zefiro, dopo aver provocato la morte di Giacinto, si consolò spostando le sue attenzioni su un altro giovane, Ciparisso. Anche costui, amico e compagno di Apollo, è protagonista di una storia del tutto simile, e se un tempo fu fanciullo, ora è trasformato nello svettante cipresso. Ma si sa: i venti sono volatili e leggeri, e così sono i loro desideri...
“Chiedilo al giardiniere, se vuoi: quando un coltivatore
vede un fiore appassito a terra nella polvere,
egli ne pianta un altro per riprendersi dalla morte del primo”
Apollo, invece, è meno frivolo nei suoi affetti. Ha il vizio incorreggibile di lasciarsi avvincere da passione per ciò che è caduco e destinato ad estinguersi e lasciare traccia nel languore del ricordo. Non può vincere la necessità del fato, ma è in grado di trasformare la natura umana in vegetale: nella metamorfosi la memoria si fa monumento, e la delicatezza di una creatura arborea mitiga il dolore con la consolazione della ciclica rinascita vegetale. Anche il compianto ha lasciato una traccia permanente: impresso sui petali del fiore, il lamento disperato della perdita sembra urlare la sua disperazione: AI, AI...
Il giacinto, fiore a bulbo, ci parla di una vita trattenuta in un’adolescenza mai giunta a piena maturità. Una vita cristallizzata nel suo germoglio, nel tempo innocente della fanciullezza, fissata dalla morte prematura in una dimensione senza tempo.