Nessuna pianta più del mirto condivide il vissuto della dea Afrodite. Innanzitutto perché predilige i litorali marini, che abbondano di mirteti, e lo stesso fa la dea, che è stata generata dalla spuma del mare. Si racconta che, quando nacque, emergendo dalle onde materne si accorse della propria nudità, e provandone pudore si nascose dietro a un cespuglio di mirto: immediatamente la pianta si onorò di sottomettersi al suo dominio vegetale.
Nel mito, le vicende che coinvolgono il mirto lasciano emergere l’identità più profonda della dea dell’amore: questo arbusto possiede rami fragili, soggetti a spezzarsi come gli incostanti desideri degli amanti; allo stesso tempo cresce spontaneo e libero, indomabile come l’eros. Simbolicamente, il mirto interpreta l’amore profano e sensuale da un punto di vista soprattutto femminile, come dimostra il fatto che con il suo nome, “myrrìne”, i greci indicavano allusivamente i genitali femminili. La sua simbologia ha in seguito investito anche sfera liturgica nuziale: con i rami di “myrtus coniugalis” si intrecciavano le corone indossate dalle giovani spose, e per analogia le sue virtù medicinali erano impiegate nel trattamento dei disturbi ginecologici.
A Roma esisteva un antico altare consacrato a Venere Myrtea, in seguito detta Murcia. Tuttavia, le tracce della più arcaica identità botanica tra Afrodite e il mirto emergono da sporadici episodi mitici o favolistici, più o meno noti, sparsi fra le righe dell’immenso patrimonio della letteratura classica. Un racconto riportato da Ateneo di Naucrati narra di come la dea abbia aiutato l’equipaggio di una nave a superare una violenta tempesta, infondendo il proprio spirito divino in una statuetta lignea che rappresentava il suo simulacro, acquistata a Cipro da uno dei passeggeri. Questa, implorata dai marinai nel momento dell’estremo pericolo, aveva cominciato a germogliare spontaneamente rametti di mirto, manifestando la presenza benevola della dea e contribuendo a infondere forza negli animi; aveva inoltre calmato i sintomi del mal di mare che si erano impadroniti degli uomini, diffondendo nell’aria gli odorosi effluvi di un profumo inebriante e delizioso.
Molte, in verità, sono le vicende che legano la figura di Afrodite al mirto, e ognuna di esse disegna intrecci e rimandi allegorici al patronato della dea. Alcune legano la propria memoria a quella di luoghi significativi, lasciando tracce di una geografia mitica posseduta da arcaiche presenze. È il geografo Pausania a raccontare della presenza, nella città di Trezene, di un cespuglio di mirto che curiosamente aveva le foglie trapassate da minuscoli forellini. Gli abitanti del luogo spiegavano quella particolarità collegandola alla tragica vicenda della principessa Fedra. Questa, per crudele volontà di Afrodite, si era perdutamente innamorata del giovane e bellissimo Ippolito, che era però il suo figliastro, in quanto figlio di suo marito Teseo. Il giovane si era votato alla dea Artemide, scegliendo un’esistenza di celibato e castità, lontana dagli allettamenti dell’amore: un’offesa insopportabile per Afrodite, dea alquanto vendicativa verso chiunque rigetti i suoi doni. Fedra si struggeva, avvelenata dalla frustrazione di quella passione non corrisposta, e proprio dietro quel cespuglio di mirto si nascondeva per ammirare indisturbata Ippolito che si esercitava nello stadio, poco lontano. Ed era in quei momenti che sfogava il proprio risentimento accanendosi sulla pianta consacrata alla sua nemica, torturandone le foglie, ad una ad una, usando lo spillone per capelli. Questo arbusto, ai tempi di Pausania era ancora meta di curiosi, e poco distante si potevano visitare le tombe di Fedra e di Ippolito.
Nel mito, eziologia botanica e simbolo si mescolano; il risentimento di Fedra nei confronti della dea che ha guidato illecitamente le sue passioni dilaga sul suo doppio vegetale, che riporterà indelebilmente le stimmate di quell’odio. Afrodite non è nuova a tale genere di vendette: domina infatti una forza prorompente e incontenibile, e dalle sue vicende emergono temi che riflettono i lati oscuri dell’eros: il rancore che scaturisce dall’amore tradito, la disperazione, la gelosia che acceca. Spesso si contrappone ad Artemide, dea vergine, refrattaria agli allettamenti della sensualità: i giovani e le ragazze che si votano al culto di questa dea diventano i bersagli naturali di Afrodite, che punisce duramente scelte di vita che ritiene contrarie alle leggi che governano la natura.
Il mirto è il muto e profumato testimone delle drammatiche conseguenze della passione. Se ne ricorderà il poeta Virgilio nell’Eneide quando, rappresentando la discesa agli Inferi di Enea, immagina le anime di coloro che furono consumati da un amore struggente appartate in una selva di mirti: tra le tante vi è anche quella di Fedra, che nell’aldilà ha ritrovato la pianta che fu compagna dei suoi tormentati giorni. La collocazione del mirto nel regno infero, apparentemente fuori contesto, risponde in realtà a quell’ambigua corrispondenza allegorica di significati che attraversa l’immaginario mitico: dopotutto è una pianta sempreverde e in essa rivive la forza trasformatrice di Afrodite, che dalle dinamiche passionali si traspone sul piano dell’esistenza e marca ogni tipo di passaggio o mutamento, compreso quello supremo della morte.
“Qui quanti duro consunse con ansie struggenti l’amore, sentieri appartati proteggono, e intorno una selva di mirti li copre: però non li lascia neppur nella morte l’affanno.” (Eneide, VI, 442-444)