Esistono piante capaci di curare quasi ogni malattia, ma le più preziose sono quelle che possono guarire l’anima di un uomo. Le antiche mitologie portano il segno di questa certezza; gli eroi hanno avuto il compito di cercarle e di sconfiggerne i custodi.
In ogni erba magica o spirituale rivive l’archetipo dell’albero sacro, dal quale essa si discosta solo per modestia, non certo per potenza: ne è riverbero delicato, esile figlia. Se l’albero è robusto e maestoso, l’erba è esile e fluttuante; quello ci costringe ad alzare lo sguardo per ammirarne la bellezza maestosa, lei ci chiede di chinarci al suolo. Un gesto di devozione, semplice da compiere; il dono che ci reca è alla portata delle nostre mani, basta riconoscerlo. L’erba è umile nel senso etimologico del termine: humilis, vicina all’humus. Chiamiamo “semplici” le erbe officinali perché solo riconducendone la vis medicinale a forze pure, a principi elementari, possiamo riconoscere il principio terapeutico e accedere alla cura. Sono state le foreste i primi santuari dell’umanità, luoghi iniziatici e labirinti di smarrimento, ma il giardino dei semplici, ricettacolo di intense forze psichiche, ripropone in un microcosmo perfetto e speculare lo stesso soffio di trasformazione spirituale.
L’albero è presente nelle cosmogonie di tutte le culture ed è l’elemento unificatore di un immaginario antichissimo dai caratteri sorprendentemente simili. È gravido di forze sacre e ha il potere di attraversare e congiungere i tre regni naturali: quello tellurico, al quale le sue radici si ancorano e dal quale trae nutrimento; quello terreno, al livello del suolo, e quello aereo, che è squarciato dalla verticalità imponente del suo fusto e abitato dalle sue chiome fluttuanti. Come tutto ciò che è prezioso, l’albero è abitato da custodi: presenze minacciose lo insidiano, animali totemici lo difendono. La tensione dialettica tra forze è spesso espressa, nel mito, dalla presenza di un serpente che si acquatta presso le sue radici o ne abbraccia la base del tronco e da un uccello simbolico, spesso un’aquila, che ne garantisce l’incolumità dall’alto. Così avviene per il leggendario frassino Yggdrasill della mitologia scandinava, che propone i simboli immutati già presenti nell’antica saga mesopotamica di Gilgamesh, dove l’albero sacro Khuluppu ospitava tra le sue fronde un nido d’aquila e ospitava tra le radici un serpente immune agli incantesimi. E che dire dell’albero biblico della Conoscenza e del suo demone guardiano? E del melo sacro del giardino delle Esperidi, nella mitologia ellenica, custodito da Ladone, serpente immortale, drago insonne e incorruttibile?
Inutile ricordare la complessità simbolica della figura del serpente. Nelle mitologie dell’albero sacro, questo formidabile guardiano diviene interlocutore dell’uomo, antagonista nella sua ricerca della conoscenza, ma anche protettore delle vie che portano alla salvezza dello spirito. All’eroe spetta il compito di scacciarlo o di distruggerlo, se vorrà riuscire ad accedere alle verità custodite dall’albero. Nelle rispettive saghe, Odino, Gilgamesh ed Eracle sono chiamati a sconfiggere il serpente per riscuotere l’ambito premio di conoscenza o immortalità. Adamo, invece, nella lotta ingaggiata soccomberà alle insidie del mistico custode, con conseguenze funeste per la sua stirpe e per l’intera umanità. Nel passaggio dalle mitologie dell’albero a quelle delle erbe officinali, scopriamo immutati simboli e significati. Incontriamo di nuovo eroi alla ricerca di erbe metafisiche e fiori magici, e di nuovo astuti guardiani rettili. Tra i molti esempi che le fonti antiche ci riportano, due sorprendono per le coincidenze simboliche.
Il primo racconto è tratto dall’Epopea di Gilgamesh, antica saga mesopotamica, e narra come l’eroe Gilgamesh riuscì a trovare la straordinaria “erba dell’irrequietezza”. L’eroe sta compiendo un viaggio formidabile, geografico e spirituale, spinto da un’inquietudine incolmabile sul senso della vita; il tormento dell’ineluttabilità della morte non gli dà pace. Si affida alla confidenza di una donna misteriosa, Siduri, che gli indica la via segreta per trovare l’unico uomo sopravvissuto al diluvio universale, e per questo premiato dai numi con l’immortalità. A prezzo di grandi fatiche l’eroe lo trova, e costui gli rivela l’esistenza di un’erba magica, chiamata “erba dell’irrequietezza”, capace di restituire vigore fisico e giovinezza. Una pianta piena di spine, che richiede grande destrezza per essere trovata. Gilgamesh non teme l’impresa, e riesce a trovarla e coglierla, nonostante questa cresca nelle profondità oscure degli abissi. Ma un uomo può essere davvero certo di possedere una volta per tutte un dono tanto potente? Proprio quando ogni rischio sembra alle spalle, accade qualcosa di inaspettato:
“... dopo trenta leghe si fermarono per la notte. Gilgamesh vide un pozzo le cui acque erano fresche, si tuffò in esse e si lavò; ma un serpente annusò la fragranza della pianta, si avvicinò silenziosamente e prese la pianta; nel momento in cui esso la toccò, perse la sua vecchia pelle. Gilgamesh quel giorno sedette e pianse; le lacrime scorrevano sulle sue guance.”
Se abbandoniamo l’immaginario dell’antica Mesopotamia per navigare nelle acque amiche della più famigliare cultura ellenica, ancora una volta troviamo un protagonista alle prese con un serpente e un’erba spirituale. E poco importa se questa volta l’eroe è... un asino! Questa storiella poco nota è riportata dallo scrittore romano Claudio Eliano, che racconta come Zeus abbia un giorno voluto premiare il genere umano con un farmaco capace di allontanare la vecchiaia. Gli uomini lo caricarono sul dorso di un asino per trasportarlo ma l’animale, assetato per la calura estiva e per la fatica, si fermò a una fonte desideroso di abbeverarsi. A questo punto...
“... il serpente che la custodiva glielo impedì e lo ricacciò indietro; l’asino allora, oppresso dalla sete, gli diede come ricompensa e coppa dell’amicizia il farmaco che stava portando. Così ci fu uno scambio di doni tra loro due: all’asino fu permesso di bere e al serpente di scrollarsi di dosso la vecchiaia, prendendo al suo posto, come si narra, la sete dell’asino”.
Nei due racconti il serpente pone l’anima di fronte alle prove che dovrà affrontare nel suo viaggio iniziatico. I rettili delle rispettive storie sono a guardia di una fonte: quale tesoro è più prezioso e funzionale alla vita? Eppure sono anche pronti a strappare ai loro antagonisti il premio tanto desiderato: la promessa di una gioventù eterna, o la speranza di immortalità, affidate alla vis portentosa di un’erba metafisica. La perdita della pianta faticosamente conquistata costerà a Gilgamesh la consapevolezza dell’impossibilità, per ogni uomo, di sfuggire al proprio destino mortale. Ma è il riferimento alla sete il collegamento più straordinario tra i due racconti, se ci sforziamo di guardare al di là del significato letterale delle parole. Irrequietezza. Sete. Sono queste le chiavi interpretative dei due miti. Non sono forse due facce della stessa inquietudine di vivere, che accomuna ogni creatura? E non è forse questa eterna ricerca di pace dell’anima, mai soddisfatta, che tiene l’uomo avvinto ai suoi limiti, senza mai placare l’arsura, e allontanandolo dalla vita vera? Il mito, con la leggerezza della narrazione, ci propone, senza invadenza, la possibile soluzione. Ci invita ad affrontare gli enigmi della nostra esistenza; forse, a trovare un equilibrio tra l’insistenza delle domande e la quiete che può darci l’accettazione del mistero.