Mancano tre notti al momento in cui la falce lunare si chiuderà in un cerchio perfetto. È questo l’attimo propizio in cui la maga Medea esce di casa e incontra la profonda quiete notturna, nell’ora in cui tutte le creature tacciono: gli uomini e le fiere, gli uccelli e le stesse fronde, immobili nel buio. Non si cura delle civetterie delle donne, Medea: indossa una veste discinta, avanza a piedi nudi e a capo scoperto, e le chiome le ricadono disordinate sulle spalle, senza nastri. Compie strani gesti, sempre cadenzati dall’imposizione del numero tre: tre giravolte, tre spruzzi di acqua di fiume sui capelli, tre grida di lamento, oscuro groviglio di parole misteriose. Poi, lasciandosi cadere sulle ginocchia, invoca la Notte custode di tutti i misteri e la dea Ecate, che è la sua maestra e conosce magie e incantesimi. Infine la Terra, che procura ai maghi le erbe prodigiose.
Sono le erbe, infatti, che cerca Medea. Ha portato con sé il suo tàlaros, il canestro che accoglierà le erbe maligne, i veleni e le radici malefiche della Tessaglia, utili per preparare il filtro. Che sia un filtro di vita, di giovinezza o di morte poco importa, perché vita e morte sono i due troni del regno di Medea. A lei sono concessi i poteri più spaventosi: sa invertire il corso di un fiume verso la sorgente, sa sconvolgere il mare in bonaccia e calmare quello burrascoso, sa muovere le nubi e i venti, ordinare ai monti di tremare o alla terra di scuotersi. Può ordinare alle ombre di uscire dai sepolcri.
Questa è Medea la terribile, nei versi del poeta Ovidio e nell’immaginario dei posteri. Lei che si è macchiata del delitto più grande, la strage dei suoi stessi figli, per vendicare il tradimento del suo uomo, non è stata perdonata dalla storia. Dei due volti dell’antica dea ha ripudiato quello dolce, accogliente, materno, per rivendicare a sé un femminile devastante e selvaggio. Al carro che la condurrà nelle terre feconde di farmaci sono aggiogati due draghi alati: docili alle carezze della padrona, ricordano l’atavica fedeltà del serpente alle dee arcaiche. Giunta sui monti, esamina tutte le erbe: alcune le strappa dalla radice, altre le recide con la lama ricurva della falce, tenendo il viso rivolto dalla parte opposta per non rimanere vittima degli effluvi nocivi delle piante tossiche. La maga pregusta ciò che verrà in seguito, il rito di dosare radici, semi e fiori, mescolati ad altri ingredienti indicibili di magia oscura, cose senza nome; infine, l’arte di “cantare” le erbe, impregnandole di cantilene infernali, mentre il filtro ribolle nel calderone di bronzo. Solo così nasce il farmaco, che sia veleno o medicina.
I saperi botanici sono il cuore del potere di Medea. Il suo tálaros è colmo di farmaci ambivalenti ma ricchissimi di virtù, e al suo interno è presente una sapienza femminile che si perde nel tempo mitico. Una leggenda raccontava che la maga avesse un giorno smarrito sui monti della Tessaglia il cestino colmo delle piante appena colte: la terra aveva accolto fiori e radici nel suo grembo generoso, e con quelle meraviglie aveva dato vita a un orto medicinale. Tutte le erbe che per i secoli a venire saranno attribuite alle streghe sono contenute nel suo canestro cultuale. Innanzitutto le piante della pazzia, come il giusquiamo e la belladonna; i veleni senza scampo, come l’aconito e la cicuta; la ruta, ricchissima di proprietà medicinali, che era considerata una panacea e un rimedio contro il morso dei serpenti. Infine piante rarissime e straordinarie, nate a testimonianza di grandi eventi, di cui rispecchiano la pregnanza cosmica. Tra queste la più celebre è quella utilizzata come ingrediente per la preparazione del filtro detto prométheion: forse il mortale colchico, o forse una varietà di zafferano, nata magicamente dal sangue versato dal titano Prometeo nei giorni del suo supplizio, quando, incatenato a una roccia del Caucaso, veniva attaccato da un’aquila che gli dilaniava il fegato. Dal sacrificio di quel sangue versato la terra aveva generato il fiore prodigioso: Medea era lì, pronta ad accogliere il miracolo botanico e ad arricchire il suo personale erbario. Con il nuovo filtro avrebbe preparato un unguento capace di rendere un uomo insensibile alle fiamme e invulnerabile ai colpi del bronzo.
Il nome di Medea racconta una complessa e ambivalente vocazione. Il destino assegnato dall’etimologia la vuole donna che “escogita”, “trama”, secondo la costrizione del verbo greco “médomai”; eppure lo stesso verbo declina i significati della cura, della protezione, della custodia, e ci costringe a volgere il pensiero a una semantica in cui “Medea” e “medicina” si appellano a un archetipo comune. E non ci stupirà, allora, scoprire che Giasone, l’eroe che la maga ama disperatamente e al quale si legherà a costo di macchiarsi del tradimento e dell’omicidio dei suoi stessi parenti, porta nel nome i significati del verbo “guarire”, “risanare” (iàomai). Nell’amore distorto e tragico di questa coppia di amanti possiamo intuire un legame antico, quello fra l’antica dea mediterranea e il suo paredro, compagno e servitore, che stabilisce anche un’alleanza più sottile, cioè quella tra colei che dispensa cura e il suo paziente, in tutti gli scenari metaforici che questo connubio può offrire. La presenza e il ruolo di Medea nella saga degli Argonauti può sembrare un’intrusione, una forzatura. È una donna che si unisce a una squadra di uomini, e lo fa assumendosi un ruolo attivo, spesso risolutivo: è caos che disturba l’agire razionale, è magia che risolve l’impossibile. È presenza femminile che irrompe nel limpido dipanarsi dell’azione eroica; farmaco che agisce laddove lo sforzo del valore virile non arriva.