La formula 42 K si riferisce all'esemplare di gru a montaggio rapido che a dicembre 2015 verrà introdotta temporaneamente nella Galleria Doris Ghetta trasformando gli spazi al pianterreno in un cantiere artistico. Attorno alla voluminosa installazione troviamo a lavoro una squadra di cinque artisti della galleria: Robert Bosisio, Aron Demetz, Arnold Holzknecht, Walter Moroder e Peter Senoner. Attraverso la mastodontica gru dormiente gli artisti trasportano una metafora altrettanto invadente e costruttiva all'interno dello spazio espositivo della galleria e allestiscono un cantiere artistico fatto di improvvisazione, spontaneità, giocosità e mutevolezza.
I cinque artisti lavorano provvisoriamente in squadra: al centro del campo di gioco, in cui capeggiano schiettezza e struttura, non stanno le rispettive opere dei singoli ma il dialogo e gli esperimenti e le realizzazioni artistiche comuni. Se di norma le mostre della galleria si concentrano sulle particolari forme espressive di singole personalità artistiche, su strategie e metodi caratteristici di un certo artista, su uno stile specifico e inconfondibile, l'azione collettiva apre ad un cantiere artistico all'insegna di lunedì ricchi di sorprese che ospitano sovrapposizioni artistiche più o meno spontanee.
L'aspetto centrale è il dialogo, l'entrare in relazione; non l'opera fatta e finita, bensì l'incompiuto, ciò che è in divenire, ciò che ha da venire; non ciò che è stato prodotto, ma la produzione in sé, il fare da cui scaturisce qualcosa di nuovo. L'imponente comparsa sposta l'attenzione dall'opera all'evento e soprattutto vuole essere un riferimento alla galleria che ha già ospitato singolarmente i protagonisti di questo collettivo offrendo il suo spazio espositivo alla loro produzione personale: uno spazio sempre pieno di energia e teso a ricostruzioni permanenti. Con questo spirito gli artisti hanno concepito questa dedica alla loro galleria nella forma di un lavoro di gruppo più che di un'esposizione collettiva, all'insegna del motto: più party e meno partiture.
Testo di Marion Piffer Damiani