Gelosa protettrice e custode è una ninfa arborea, capace di maledire chiunque minacci la sacralità della sua pianta. Il suo sangue è linfa e la sua esistenza risponde al fluire armonico dei cicli naturali; l’anima vegetale è la sua stessa anima, ed estinguere un’anima equivale a compiere un atto sacrilego. Guai al sacerdote che non allontani la ninfa dall’albero, con i riti che la liturgia richiede, prima che la scure si abbatta sul fusto!
Eppure c’è stato un tempo in cui questi spiriti arborei sono stati fanciulle. Forse sacerdotesse, o dee. Ma la loro storia non ci è stata tramandata dalla loro voce diretta; piuttosto, da quella di un usurpatore, un dio giunto da un altrove, che ha trovato una nuova dimora in cui insediarsi e lo ha fatto con modi lusinghieri, da vero seduttore: Apollo. Quella dimora era un mondo dominato da una polarità femminile, memoria di un’età più vicina allo stato di natura. Apollo ne è rimasto stregato. Così, in quei luoghi eletti di mistero che sono i boschi, palcoscenici di morte e rinascita vegetale, si sono consumate molte storie di seduzione; amori raramente corrisposti, più spesso dialoghi violenti tra un predatore e una fuggitiva. Questa è anche la storia di Dafne. Forse solo la più nota, certamente la più pietosa, della lunga serie di racconti di trasmutazione legati al culto del dio arciere, che vedono protagonisti fanciulle o ragazzi amati dal dio, accomunati da un destino di metamorfosi in piante o fiori, in seguito riconosciuti a lui sacri.
Conduceva una vita libera e selvaggia sui monti, Dafne: Apollo la vide e se ne innamorò perdutamente. Si dice che fosse il suo primo amore, instillatogli da Eros per vendicarsi della sua insolenza quando, vedendolo maneggiare l’arco, lo aveva deriso minimizzando la sua forza. Eros aveva voluto prendersi la giusta rivalsa, dimostrando come i suoi dardi d’amore fossero tanto potenti da sottomettere anche l’autorità di un nume temibile. Ma se la freccia destinata ad Apollo è aguzza e dorata, e tale da suscitare l’amore, quella riservata a Dafne è spuntata e possiede un’anima di bronzo che respinge ogni sentimento di attrazione. La ninfa non ricambia i sentimenti di Apollo e si sottrae alle sue insistenti attenzioni, e lui, preso da frenesia incontrollabile, prende a inseguirla con insistenza fra i boschi. La ragazza fugge a lungo nel tentativo di sottrarsi all’abbraccio indesiderato ma nell’affanno della corsa a lui sembra ancora più leggiadra e desiderabile. Arriva il momento in cui essa si accorge che le forze la abbandonano: è sopraffatta dalla fatica e capisce che la fuga è vana. Sentendosi braccata, invoca l’unica supplica possibile, l’aiuto della Madre Terra, implorandola di dissolvere quelle fattezze che l’hanno resa troppo amabile. La dea ascolta la preghiera.
Mentre ancora sta pregando, Dafne avverte un profondo torpore nelle membra: fibre sottili le fasciano il petto, i capelli si allungano in fronde, le braccia in rami. I piedi, un tempo così veloci, si inchiodano al suolo in salde radici. Il volto scompare tra le fronde di una chioma vegetale. La ragazza è ormai fagocitata in una forma inaspettata, e al suo posto un arbusto di lauro sprigiona profumo. Eppure anche in questa nuova natura Apollo la ama: appoggiata la mano sul tronco, sente ancora palpitare il cuore sotto la corteccia. Stringe fra le braccia i rami come fossero un corpo, ne bacia il legno, ma perfino quello sembra ritrarsi dall’abbraccio. Allora il dio pronuncia le parole fatali:
Se non puoi essere la mia sposa, sarai almeno la mia pianta!
Di te sempre si orneranno, o lauro, i miei capelli,
la fronte dei condottieri e quella dei profeti.
E come il mio capo si mantiene giovane con la chioma mai tagliata,
anche tu potrai vantarti di avere chiome sempreverdi.
Poi tacque, e l’alloro annuì con i suoi rami e agitò la cima, quasi volesse assentire col capo.
Eccola, la versione di Apollo: quella di Dafne può raccontarla ormai solo lo stormire oracolare delle chiome del lauro, o l’eco profetica delle sue foglie bruciate, che ispira le visioni delle pizie. Dietro la fuga disperata della ninfa prende vita la rappresentazione scenica di uno scontro tra civiltà. Il tentativo di stupro è la metafora di una violazione più vasta e profonda; il dramma disseppellisce i residui della memoria di un’epoca di grandi trasformazioni storiche e culturali, sopravvissuta, e come cristallizzata, nel mito. Dafne e Apollo appartengono a epoche sideralmente lontane. Lui è il portatore di una nuova modernità, fondata sui valori maschili della guerra, della conquista e del possesso. Logos. È la cultura greca così come la conosciamo. Lei, l’antica dea in fuga, è l’anima del mondo conquistato, impreparato a reagire. Natura. La nuova era ha fagocitato quella arcaica, dissimulando lo stupro con l’abbraccio morbido dell’amante. Dafne fugge ma sa di non avere scampo. Allo stesso modo, Apollo sa di non poter cancellare gli antichi valori: dovrà fare ricorso all’arte del compromesso e alla diplomazia. Si appropria dei simboli, consapevole che il passaggio di pochi secoli basterà a farli credere suoi da sempre.
Nell’intima connessione di natura e metamorfosi anche il lauro, con i suoi intrecci simbolici, trasmigra nella dimensione apollinea, diviene bottino di guerra. E così gli arcaici riti oracolari, i vapori visionari delle sacre fumigazioni, i saperi degli antichi collegi sacerdotali femminili, vengono assorbiti dal culto del dio e consegnati alla sua sacerdotessa, la Pizia, che è un riverbero di Dafne, per sempre imprigionata nell’azione civilizzatrice di Apollo. Ormai assorbito dalla sfera religiosa del dio, il lauro diventa pianta fondamentale nella celebrazione dei riti religiosi e civili e ben presto la sua forza allegorica si propaga alle altre attività poste sotto la protezione di Apollo. Per la sua versatilità nelle applicazioni farmaceutiche diviene ornamento figurativo delle divinità salutari legate alla sfera apollinea, quali Asclepio, Igiea ed Eracle. Incorona il vincitore sportivo; orna infine la fronte del poeta, che essendo vate della parola è amato da Apollo.
Di Dafne rimane la pietà del ricordo. L’evanescenza della teofania. Il rispetto per un’integrità perseguita e spinta fino al limite estremo del possibile, fino al sollievo della metamorfosi, concesso dall’antica madre di tutto, la Terra, unica possibile garante del salvifico ricongiungimento con lo stato di natura.