Elena di Sparta. Nata da un uovo di cigno, come il cigno delicata e candida. Così bella che, ancora bambina, aveva fatto scatenare una guerra quando fu rapita dal grande eroe Teseo. In seguito, raggiunta l’età dell’adolescenza, i migliori tra i Greci si erano presentati per chiederla in sposa, e tra tutti era stato scelto Menelao di Sparta: il valoroso condottiero di eserciti, ma anche, fatalmente, il marito tradito, ripudiato e abbandonato per un amore avventato e illecito. È lei la donna mortale che il mondo ricorda come la causa di una delle guerre più celebrate della storia, che contrappose per dieci sanguinosi anni schiere di eroi sotto le mura possenti di Troia. Lei, che per questo fu chiamata cagna, figlia dell’odio, demone della morte.
Ma pochi sanno che Elena fu un tempo una divinità, dea di richiami vegetativi e di floreali teofanie. Presso alcuni popoli era conosciuta con il nome di “dendrite”, l’arborea; a lei si tributavano antichi culti della vegetazione e le era consacrato il platano, le cui foglie hanno cinque punte: le dita della dea madre. È però una pianta erbacea, l’elenio, a legarsi al suo nome e alla sua fama, ricamando intrecci mitici e botanici, acquisendo forza di farmaco dal patronato della dea. Si raccontava che il fiore si fosse generato dalle sue lacrime quando, in fuga da Troia in fiamme, era approdata sull’isola di Faro; e lei, che era la più bella fra le donne del suo tempo, aveva trasferito al fiore l’elisir distillato dalla sua stessa avvenenza, facendone veicolo di virtù cosmetiche di grande utilità per il genere femminile, poiché secondo la tradizione esso nutre e cura le imperfezioni della pelle ed è in grado di rendere l’incarnato luminoso.
L’elenio, erba di Elena, sarebbe in seguito proliferato abbondantemente sull’isola di Faro. Il legame mitico di questa isola con il personaggio di Elena schiude uno scenario simbolico che permette di accostare questa figura femminile ad altre della tradizione mediterranea, in particolare alle maghe esperte di farmaci, Circe e Calipso, abitatrici di isole mistiche: lì esse praticano le arti farmaceutiche, preparano filtri e veleni, ricordano al mondo che l’antico potere è stato delle dee. Altri invece raccontano che l’elenio fu un dono offerto alla bella spartana della regina egizia Polidamna: una pianta magica, capace di provocare repulsione nelle serpi, che proliferavano abbondanti nell’isola. Una variante del mito che sottolinea il vincolo femminile con il serpente, animale profetico rivelatore dei misteri della salute e della rigenerazione, ulteriore prova della matrice mediterranea di Elena, e della sua parentela spirituale con le maghe “pharmakìdes”.
Omero, che nei suoi versi racconta la Elena che tutti noi ricordiamo, bellissima e fedifraga, forse non era già più consapevole della primitiva natura divina di questa figura; soltanto ne testimonia un riflesso smagliante nelle sfumature seducenti della sua bellezza eccezionale. Inaspettatamente, però, alcuni episodi della sua biografia mortale lasciano intravedere indizi dell’antica identità: Elena non è più dea ma rimane esperta di erbe medicinali. E non è soltanto l’elenio a parlarci del suo antico sapere, bensì una pianta misteriosa e formidabile, che reca in sé una forza taumaturgica spirituale. Il nepente.
È in un episodio dell’Odissea che Elena attira la nostra attenzione per un ruolo inusuale rispetto allo stereotipo di donna contesa e prigioniera della propria passione fatale. La guerra di Troia è finita da alcuni anni, e a Sparta, presso la corte di Menelao e della sua consorte, giungono due ospiti illustri: uno di essi è Telemaco, il figlio di Odisseo, che viene accolto con grande affetto e con tutta la magnificenza di un’ospitalità regale. Al termine del banchetto, i presenti si abbandonano ai ricordi e rievocano gli eroi e gli amici che sono stati vittime della guerra, che ormai sopravvivono solo nella memoria di chi è rimasto. La commozione prende il sopravvento, e Telemaco piange lacrime di nostalgia per il padre che non vede ormai da molti anni. È a questo punto che nella scena irrompe Elena; avanzando con regalità nella sala offre ai suoi ospiti una coppa contenente un rimedio stupefacente: mescolato al vino, ha infatti il potere di lenire sofferenze e ricordi dolorosi, portando il conforto dell’oblio. Così nei versi omerici:
Gettò nel vino che bevevano un farmaco
che calmava l’ira e il dolore, oblio di tutte le pene.
Chiunque lo avesse inghiottito, mescolato al vino,
non avrebbe versato pianto quel giorno,
neppure se gli fossero morti i cari genitori,
né se davanti ai suoi occhi col bronzo
avessero straziato un fratello o un figlio.
Tali rimedi sapienti conosceva la figlia di Zeus.
L’ingrediente miracoloso è chiamato nepente, e anche nell’etimologia si presenta come un “farmaco che spazza via il dolore”. Tuttavia risulta chiaro dal contesto che questa droga della dimenticanza non agisce sulla sfera fisica, ma piuttosto su quella psichica, emozionale. Impossibile stabilire con certezza l’identità botanica del nepente: oppio, giusquiamo, cannabis o altra droga psicoattiva. O forse di nuovo l’elenio. O ancora: un filtro abilmente bilanciato mescolando ingredienti diversi. Le ipotesi avanzate dagli storici e dai botanici sono tributi dovuti alla ricerca, ma è infinitamente più interessante cogliere il valore di medicina spirituale di questo dono vegetale, ricondotto al sapere botanico delle donne, che nell’immaginario dell’epos e del mito è spesso ricondotto a una pratica curativa che agisce oltre la dimensione della malattia del corpo per inoltrarsi nei territori della psiche. La figura di Elena si colloca dunque nel vasto universo connesso alla medicina magica femminile: la conoscenza sottile della natura la avvicina a Circe e Calipso, le maghe di stirpe solare, terribili e misericordiose nel somministrare veleni e panacee.
Eppure, già i commentatori antichi del passo omerico sospettavano che il riferimento al nepente nascondesse un enigma allegorico, e si spingevano a proporre un’ipotesi sorprendente! In particolare è lo scrittore romano Macrobio a invitarci a superare il significato letterale delle parole, quando afferma che “se si analizza accuratamente l’occulta saggezza di Omero, quel calmante che Elena mescolò con il vino non era un’erba, nemmeno una droga dell’India, bensì l’occasione di introdurre un racconto che facendo dimenticare all’ospite la tristezza lo incamminò verso l’allegria”.
Sarebbe stupefacente immaginare in Omero un tale intento di rappresentazione simbolica! E tuttavia l’ipotesi di Macrobio è tanto affascinante quanto sensata. Che cosa più della parola può curare, può sciogliere le tensioni e riportare la pace nel cuore dell’uomo? E non è forse un talento tutto femminile quello di narrare e di recare consolazione, facendo della parola uno strumento di cura? È bello pensare che, ben al di là dei poetici intrecci fra vissuto mitico e presenze botaniche, la donna che per i capricci del destino era stata causa di guerra e distruzione abbia saputo trovare redenzione nella semplicità di un gesto di pietà; lasciarsi alle spalle la colpa facendosi farmaco.