Alla testa dell'acqua è una espressione che proviene dal dialetto siciliano oltre ad essere il nome una specifica località nell'area sud orientale dell'isola. La duplicità del suo significato, cioè l'esigenza in una discussione di andare all'origine della stessa, e l'essere espressione toponomastica, incarna la recente ricerca pittorica di Luca Macauda (Modica, 1979) che si concretizza sulle superfici della tela lavorata a pastello morbido. Le sette opere esposte, varie nelle grandezze fino ad arrivare a lavori di grandi dimensioni, sono state eseguite dall’artista nel recente 2014 e 2015.
“Sulle superfici di Macauda la pittura galleggia” ci suggerisce Gabriele Tosi nel testo critico che accompagna la mostra. “Come accettati dall’onda, i suoi segni affondano e riemergono, vibrano energici pensando la materia terrosa con la fluidità propria dell’acqua. La sicurezza mentale del tratto si scioglie in un fare libero, lontano da ogni bellicoso estremismo perché fautore di quella naturalezza capace di sciogliere le gabbie dell’artificio. Così ho inteso l’uso di questi pastelli morbidi, che naturali e privi di solventi spingono l’artista a lavorare sulle aderenze, a sentire l’immagine invece di proiettarla dagli occhi. La fragilità della materia - un incauto passaggio di mano farebbe pastrocchi - si sposa col rifiutare al visivo ogni forma fossile, la sua duratura brillantezza delega alla luce, cioè al vivo, ogni compito distintivo e formale”.
Ed in merito alla complessiva ricerca dell'artista: “Mi viene in mente che spesso, nell’ambiente dell’arte contemporanea, usiamo la parola “lavoro” invece di “opera”. In fisica, il “lavoro” si può grossolanamente definire come la forza che agisce su un oggetto e ne causa lo spostamento. Quando noto come queste tele ammettano di non uscire dal vuoto e al tempo stesso non siano una variazione di alcun modello, piuttosto il portato esperienziale di ciò che le precede, la definizione “lavoro” non mi appare più così fredda e inopportuna. Il risultato è infatti una pittura che mantiene una memoria, in qualche modo materica, del proprio ricercare. Ho avuto la possibilità di fruire le ultime opere in ordine cronologico e un senso di continuo mutamento mi è apparso evidente. A volte c’è qualcosa che si muove, cresce, affiora: nel cambio di un colore, nell’emersione più energica dal fondo, nella dose dei segni. Altre volte, come dopo un parto compiuto, la novità è carica, travolgente e offuscante, come se tra una dimensione e l’altra fosse trascorso un periodo lunghissimo in un tempo davvero breve”.