Interno18 arte contemporanea ospiterà dal 12 febbraio al 29 marzo la mostra personale di Silvia Mei.
Nata a Cagliari nel 1985, vive e lavora a Milano. Vincitrice del Premio Art Gallery, in occasione del quale ha esposto al Palazzo delle Stelline (Milano) con una personale dal titolo Pensieri ruvidi, nel 2013 ha esordito con un solo show anche a New York (Molly Krom Gallery).
“Una natura scura che tenta il sopravvento attraverso fronde mutate da verdi a nere, per poi ricambiare di nuovo in colore, attraverso fiori vivaci, foglie rosse e ancora verdi, come elemento salvifico per quell’essere umano che nelle opere di Silvia Mei prevale su tutto. L’umano e il suo doppio che domina rispetto al gruppo familiare a cui l’artista sarda spesso faceva riferimento in passato. Quell’individuo molteplice, di cui parla Frida Khalo, l’artista messicana a cui aderiscono molti elementi della poetica della Mei. Una poetica inconfondibilmente femminile unita a uno stile brutale, che ha dei codici chiari, che riprendo da un mio testo dedicato alla pittrice sarda di poco tempo fa: impatto grezzo, quasi primitivo, un richiamo forte a quell’Art brut di un Dubuffet, che già ricordava gli antichi segni delle caverne, o ai disegni infantili del nordico Gruppo Cobra, ma sopra cui la Mei elabora infiniti dettagli minuziosi e femminili, magari leziosi, da osservare pian piano sopra i grandi fogli bianchi su cui dipinge.
L’evoluzione: ora le sue donne sono solitarie, ma spesso in coppia, unite da un elemento fondante della sua poetica: i capelli. Capelli come unione, capelli come applicazione sui grandi fogli di carta elaborati dall’artista, capelli come proseguimento di sé. E poi gli abiti colorati, non definiti nella forma e nella fantasia, ma più evanescenti ed elaborati. Quegli stessi abiti che coprono un corpo che la Mei ha devastato con i suoi difetti arcigni, estremi, che tengono l’opera in bilico tra quel piacevole sguardo di rimando dall’impatto del colore e della materia, ma dove sopravviene l’altra sensazione: quella dell’angoscia, della paura di queste figure umane allungate e spigolose, dai volti rettangolari e primitivi, e dal naso più spesso e materico, di un colore diverso come a sottolineare che non appartiene a quel contesto.
Un’evoluzione dunque più forte: il volto diventa maschera – un rimando alla cultura dell’isola d’origine di Silvia Mei, la Sardegna – ed è attorniato da elementi floreali, spille, orecchini, corolle, macchie di colore. Il corpo è invaso da peli e elementi che, come radici, scorrono su gambe, braccia e petto, come a cercare un rifugio tra i seni nudi, e forse il grembo materno, luogo di pace. E poi quegli elementi che incombono: i corvi neri, gli scarafaggi, le minuscole faccine che, come tanti pensieri che si moltiplicano, rimangono sempre li, a scrutare. Un vocabolario complesso e faticoso che rende l’impatto non semplice, ma unico”. - Rossella Farinotti