Conosco il silenzio della parola e ne sono intimorita. E’ una sensazione sorda, senza sfumature, vuota di promesse, incapace di respiro profondo, invischiata in acque scure, fangose dalle quali è difficile liberarsi.
La parola si nega ma non capisco se questa è una condanna, una punizione o un segnale che induce a trovare altre forme d’espressione. Il gesto della scrittura diviene lento, quasi sospeso nel tentativo di ridare armonia alle parole che sfuggono alla mano che cerca di tracciarne il profilo.
Non so dire come accada che le parole ci abbandonano, che si sottraggono al nostro abbraccio e ci ritroviamo in quella condizione di abbandono che è struggente desiderio di ciò che si è amato e poi perduto.
Si resta in ascolto, ci si affida alla speranza, si prova ad allontanare la consapevolezza che la separazione è dentro ad ogni incontro, che ci sarà un addio anche se non sappiamo quando.
Si attende in una sorta di smarrimento, si aspetta che le parole giuste tornino a trovarci, che ancora una volta ci concedano il dono di poterle rapire alla poesia che sa risvegliarle dal sonno dell’ amarezza, amplificarne il sospiro, vestirle di bellezza e di mistero, parole soffiate fuori dal corpo come un fiotto caldo.
Non so perché accade ma chi scrive conosce il silenzio cupo, pesante che ci avvolge quando la voce delle parole sembra non riuscire ad attraversarci, quando la nostra segreta fonte, come prosciugata, non infonde il suo respiro alla scrittura.
La parola non si fa corpo plasmato dal nostro cuore. Rimane aggrovigliata in una oscurità che è tormento. Le parole non trovano pace, non portano pienezza di sentire, non accolgono il nostro accorato richiamo. Sostano al limitare della selva, si affacciano su porti abbandonati, attraversano “città invisibili”, vagano lungo sentieri deserti di sapere, ma non accettano di fermarsi là dove vogliamo dare loro rifugio.
Perché la parola, mia Divina Maestra, continua a fuggire da me, perché mi pare d’aver perduto la sua voce, il suono sacro delle sue sillabe arcane? Concedimi la parola, che io possa fecondarla di pensieri potenti, che io possa nutrirla di visioni mirabili, che io possa continuare a sentirmi una cosa sola con il Verbo.
Quando la parola sembra abbandonarci ci si sente variabili impazzite, frammenti vaganti alla ricerca di nuovi significati, di nuove tracce impresse là dove si sono cancellate le certezze.
Si cerca di sfuggire alla paura di un vuoto che non è vastità pronta ad accogliere bensì solitudine, percezione d’amore interrotto.
Le ferite della lontananza sono segni doloranti che si cerca di lenire ripensando alle parole prime capaci di nutrire i desideri smarriti.
Si gioca ogni carta per ritrovare la forza della parola che invade il cuore.
Come descrivere la tristezza insinuante che ci entra nell’anima e pian piano diviene abbandono di quel sentire vitale che alimenta il nostro essere nelle cose con interezza?
Tace lo stupore che ci fa sussultare. Gli occhi non trovano lo sguardo in grado di suscitare quell’entusiasmo che è forza generante annunciata dal grido della profetessa. Si sta in una sorta di tempo sospeso, di straniamento che rende faticoso dominare le emozioni.
Come fare per ritrovare le parole, come indurle a dare forma alla narrazione, come restituire all’intuizione la forza di rendersi manifesta? Come ristabilire il flusso di energia che attraversa il corpo fino a mettere in moto ricordi, visioni, fantasie? Come riconnettersi alla potenza creatrice che ricongiunge, in una sorta di espressione trinitaria, la mente, il cuore e l’anima?
Come uscire dalla paura di questo silenzio?
Perché non si trova la parola che vibra all’unisono con la nostra anima? La parola che si sente parte inscindibile di quel tutto da cui non può astrarsi né prendere distanza. La parola che dice l’indicibile indossando la veste evanescente dell’immaginazione.
Dov’è la parola che accoglie la paura per farne nettare di guarigione?
Dov’è l’antica, divina voce intonata ai suoni dell’universo, la parola che ha in sé la sacralità che alimenta il canto del mito?
Dov’è la parola indulgente, la parola che perdona?
Dov’è la parola che non dichiara guerra, che non uccide, che induce la compassione e salva?
Dov’è la parola che scorre come acqua che non si ferma e bagna la terra come un seme ininterrotto che genera fiducia? La parola che alimenta chi vaga nell’oscurità incapace di attraversare la palude limacciosa dell’ignoranza?
Dov’è la parola che penetra nelle fessure della nostra meraviglia e le illumina di attese, la parola che scava negli angoli bui dell’indifferenza e ne fa emergere sentimenti abbandonati?
Dov’è la parola che squarcia l’orizzonte limitato delle consuetudini e cerca conforto alla propria diversità? La parola che spalanca lo sguardo sulla distesa generosa dell’impossibile, che nuota nel grande oceano dell’ignoto, la parola che incontra il mistero per inoltrarsi nell’oscurità che prelude alla scoperta ?
Dov’è la parola che dispiega le sue ali a proteggere la nostra mente appesantita dalle speranze?
Dov’è la parola che fa restare vivi anche quando siamo invasi da una irrequietezza che spegne la capacità di dire?
Dov’è la parola che riporta equilibrio là dove è venuta meno la rettitudine, la dignità, l’esperienza che non tiene a distanza la vita ma la lascia scorrere nel racconto?
Come convincere le parole a disegnare i sentimenti che hanno bisogno di essere detti per non perdere le tracce del vissuto, per riuscire ad immaginare al di là del presente?
Le domande si addensano ma sembra non ci siano risposte: le parole rifiutano di darsi un senso compiuto, di mettersi a raccontare le storie; se ne stanno sospese nello spazio del non detto, raggrumate nelle viscere dell’esistenza, accanto al portale invalicabile dell’ispirazione.
Poiché scrivendone ci si può sbarazzare di qualunque cosa, se il processo espressivo non può essere accolto dalle parole non si può dare sfogo fino in fondo al bisogno di esprimere ciò che è profondamente sepolto. Tutto è assenza.
E’ difficile comprendere e accettare il rifiuto da parte delle parole di assecondare la scrittura. Sulle prime ne resto sconcertata, cerco le parole da appoggiare sul foglio con la penna ad inchiostro liquido, ma il pensiero sembra non fluire con un senso compiuto. L’immagine che si forma appare come uno scomposto miscuglio di lettere, la mano non riesce a governare il flusso delle parole. Poi il sentimento lascia spazio al perdono.
Le parole sono un dono e, in quanto tali, non è scontato il loro offrirsi, specie quando le accogliamo in modo tiepido, dando per certo che saranno sempre pronte e disponibili a servire le più svariate cause, a sciorinare concetti e teorie buoni per tutte le stagioni.
E può accadere che le parole, Divine Signore, memori del loro passato , paragonabili alle antiche themistes dei Greci, le “norme” etiche non codificate e scritte ma impresse nel cuore degli umani, compiano l’estremo sacrificio di se stesse condannandosi al silenzio per ricordarci che è tempo di ridare sacralità alla parola, di sottrarla al chiassoso spettacolo delle chiacchiere “senza qualità”, di ritrovare quella interiore purezza nella quale alligna l’esperienza della parola come verità.
Amo la parola che si insinua
nei giardini della benevolenza
sfiorando gli smalti color turchese
che rendono splendenti le miniature
nella flebile penombra
attraversata da delicati bagliori
di fiori al tramonto
L’amore è la sola possibile risposta alla paura di questo silenzio, nell’attesa che le parole tornino a manifestarsi in tutta la loro generosità, a ridestarsi nella loro pienezza.