L’importanza della comunicazione non è soltanto un problema di oggi – anche se forse una maggior sensibilità verso certi argomenti potrebbe aver favorito una maggior capacità di riflessione (premesso che occorre uscire “dall’equivoco oggi ricorrente e diffuso: che una somma crescente di informazioni possa dare di per sé la conoscenza”, così Marco Garzonio, nella Nota al volume di Carlo Ghidelli, Comunicare – Note bibliche per la vita1 e non è solo una questione di “tecnica”, di “strategia” e di “marketing” (con tutto rispetto, ovviamente, per questi temi sicuramente rilevanti), ma si tratta piuttosto di capire l’essenza – sul piano dell’essere – di questa delicata e vitale “operazione”, rimarcando che “è esigenza imprescindibile della vita umana quella di coordinare e di unificare il pensiero, la parola e l’azione così che essi si integrino e si arricchiscano reciprocamente”2. In altre parole, noi comunichiamo (bene) non tanto quello che sappiamo, e quello che riusciamo meglio a dire, ma soprattutto quello che siamo e viviamo, anche perché “la comunicazione coinvolge sempre in qualche modo la persona che comunica3. Come efficacemente notato, “Babele è il simbolo della non-comunicazione… e di una civiltà in cui la moltiplicazione e la confusione dei messaggi porta al fraintendimento. Nasce di qui la domanda angosciosa: come ritrovare nella Babele di oggi una comunicazione vera, autentica, in cui le parole, i gesti, i segni corrano su strade giuste, siano raccolti e capiti, ricevano risonanza e simpatia?... È possibile comunicare oggi nella famiglia, nella società, nella Chiesa, nel rapporto interpersonale?”4.
Senza poter affrontare la vasta problematica in discorso, vorrei rapidamente osservare come la vita stessa sia “comunicazione”, e come Dio sia il più perfetto (misterioso e inarrivabile) comunicatore: e proprio il suo libero atto creativo può essere considerato come sublime e infinita “comunicazione” ed estensione del suo essere, infatti, “il comunicare autentico non è solo una necessità per la sopravvivenza di una comunità civile, familiare, religiosa. È anche un dono, un traguardo da raggiungere, una partecipazione al mistero di Dio che è comunicazione. (E) dedicare un biennio del nostro cammino pastorale al tema del comunicare… non è un tema accessorio o ‘di lusso’. Si tratta di una condizione dell’essere uomo e donna e dell’essere Chiesa”5. Perciò “l’uomo è fatto per comunicare e per amare. Dio lo ha fatto così. Di qui si spiega anche l’immensa nostalgia che ciascuno di noi ha per poter comunicare a fondo e autenticamente. Non c’è nessuna persona umana che sfugga a questo intimo desiderio”6. Ammesso questo dato (ed “esigenza esistenziale”), può diventare vero modello di riflessione e di comportamento la realtà trinitaria (conosciuta ed esplorata dalla Fede, la quale ci dona una maggior e più profonda capacità di visione delle cose, umane e divine). Il comunicare interno al mistero d’amore delle tre Persone divine – allargandosi a quella creatura privilegiata che è l’uomo – ci illustra le caratteristiche di questo “flusso comunicativo” e fondativo in cui siamo invitati ad entrare7.
In sintesi, l’unità dell’atto del comunicare è costituito al suo interno da questi tre “momenti”: il Silenzio (del Padre), la Parola (del Figlio), l’Incontro (dello Spirito Santo). “Se il comunicare è soltanto parola, scade nel verbalismo o nel concettualismo. Se è solo silenzio, cade nel mutismo, nella paura a investire in atti comunicativi… Se è o pretende di essere solo incontro, scade nell’esteriorità e nella strumentalizzazione dell’altro”8.
Dunque, il nostro comunicare deve, nelle varie modalità espressive (e prima ancora nella nostra “consapevolezza comunicativa”), rispettare ed includere: il silenzio (“verticale”, come speranza nel soccorso divino, che integrerà i nostri inevitabili deficit; e “orizzontale”, come rispetto dei tempi di maturazione del nostro interlocutore), la parola (come gesto concreto che si offre), l’incontro (punto di arrivo di ogni dialogo). Inoltre, è fondamentale capire le qualità della comunicazione divina all’uomo (che devono essere poi declinate dall’attività umana): che è progressiva, cumulativa, personale e storica. Vale a dire che la comunicazione di Dio “si attua con eventi e parole che si rimandano e si spiegano a vicenda”, è poi graduale e rispettosa dei tempi di comprensione dell’altro. È poi profondamente paziente e rispettosa della libertà, per dar modo all’altro di elaborare le sue risposte; anche la Scrittura ci richiama alla pazienza dell’agricoltore che non forza i tempi del raccolto, ma investe con fiducia pur se talora “semina nel pianto”, v. Salmo 1269. Maestro della comunicazione resta Gesù, il quale accoglie “ogni singola persona, a partire dalla situazione concreta nella quale si trova, senza imporle nessun cammino, senza usarle veruna violenza, sia pure a fin di bene”10; perché Egli “non spezzerà una canna incrinata, non spegnerà uno stoppino dalla fiamma smorta”, Isaia 42,3). In sostanza – come “Verbo di Dio” – Gesù Cristo ci insegna e ci dona amore e misericordia testimoniando come “l’unica forza che apre le porte della comunicazione interpersonale è l’amore”11.
Da qui discende la nostra necessità come cristiani – cioè “imitatori” di Cristo – di amare anche per comunicare, intendendo questo vitale “imperativo” non in senso moralistico, ma ontologico: “Dio è amore” (1 Giovanni 4,8), pertanto amando ci sintonizziamo con Dio stesso, respirando la linfa vitale della sua “sostanza amorosa”, come unica forza universale che, nel mistero, governa il mondo. Di certo non bisogna dimenticare l’incompiutezza di ogni comunicazione storica, e la salutare fiducia in Dio che “perdona, riabilita, risana la comunicazione umana imperfetta e segnata dal peccato” 12. “Comunicare è difficile”, e la comunicazione autentica non si lascia del tutto programmare e possedere. “È un mistero che ha le stesse caratteristiche luminose e velate del mistero di Dio”13. La Sacra Scrittura – che può essere intesa come la storia del dialogo tra Dio e gli uomini e degli uomini tra loro (“nel continuo sforzo di intendersi o nei fallimenti comunicativi che regolarmente si verificano e nel loro superamento”14 – presenta una serie di richiami etici alla prudenza (cioè alla saggezza ed all’efficacia) del comunicare, che qui non possiamo neppure sfiorare, ma che convergono nel farci capire l’importanza e le molteplici conseguenze del nostro parlare (anche perché, come ricordava il Manzoni, le parole fanno un effetto in bocca e un altro negli orecchi). In estrema sintesi, ecco alcuni veloci richiami. “Vi è chi parla senza riflettere: trafigge come una spada; ma la lingua dei saggi risana” (Proverbi 12,18); “Sii pronto nell’ascoltare, lento nel proferire una risposta” (Siracide 5,11); “Non lodare un uomo prima che abbia parlato, poiché questa è la prova degli uomini” (Siracide 27,7); “Non rispondere allo stolto secondo la sua stoltezza per non diventare anche tu simile a lui. Rispondi allo stolto secondo la sua stoltezza perché egli non si creda saggio” (Proverbi 26,4), perché c’è “un tempo per tacere e un tempo per parlare” (Qoelet 3,7).
Infine, come elemento centrale dell’atto comunicativo, ci deve essere sempre l’intenzione di suscitare una risposta, di stabilire un aperto dialogo con l’altro, ben sapendo che la verità è sempre un faticoso punto di arrivo e non un egocentrico punto di partenza (d’altronde, “il metodo dialogico insegna che una esagerata sicurezza di se stessi e delle proprie posizioni rende sempre più difficile l’incontro tra persone e tra gruppi; questo invece diventa sempre più facile se tutti si mettono in un atteggiamento di ricerca e di arricchimento reciproco”15.
A conclusione di queste mie riflessioni, propongo un pensiero del poeta russo naturalizzato statunitense Iosif Brodskij (Premio Nobel 1987), che avevo scelto di leggere ai miei studenti al termine delle lezioni del mio ultimo Seminario all’Università di Pavia (per la cattedra di “Etica e deontologia della comunicazione”). Ecco le parole del poeta (che tra l’altro è sepolto a Venezia). “Cercate di ampliare il vostro vocabolario e di rifarvi ad esso come se aveste a che fare con il vostro conto in banca. Dedicategli una grande attenzione e cercate di rendere maggiore il vostro dividendo. Lo scopo non è di migliorare il vostro eloquio o il vostro successo professionale – benché in seguito anche questo sia possibile – né di trasformarvi in saputelli da salotto. Lo scopo sta nel fatto di darvi la possibilità di esprimervi nel modo più completo e puntuale possibile: in una parola, lo scopo è il vostro equilibrio. Infatti, l’accumulazione del non detto, del non espresso può portare propriamente alla nevrosi”.
Note
1 C. Ghidelli, Comunicare – Note bibliche per la vita, Ediz. Paoline 1991, pag. 15.
2 C. Ghidelli, op. cit., p. 115.
3 C. M. Martini, in Effatà – Apriti!, Lettera alla diocesi per il programma pastorale “Comunicare”, Milano 11 agosto 1990, in Il lembo del mantello, Corriere della Sera 2012, pag. 92.
4 C. M. Martini, op. cit., pag. 54.
5 C. M. Martini, op. cit., pagg. 56-57.
6 C. M. Martini, op. cit., pag. 77.
7 C. M. Martini, ibidem.
8 C. M. Martini, op. cit., pag. 95.
9 C. M. Martini, op. cit., pagg. 95-96.
10 C. Ghidelli, op. cit., p. 55.
11 C. Ghidelli, op. cit., p. 55.
12 C. M. Martini, op. cit., pag. 56.
13 C. M. Martini, op. cit., pag. 95.
14 C. M. Martini, op. cit., pag. 83.
15 C. Ghidelli, op. cit., pagg. 123-124.