Quattordici sono le opere realizzate, per un totale di oltre 2 tonnellate, tra materia viva e di supporto, che saranno visibili, per 100 giorni, all'interno del Macellum noto come Tempio di Serapide di Pozzuoli.
Il titolo della mostra Kême, prende spunto dal luogo di natura vulcanica che lo accoglie, i Campi Flegrei, deriva dall’egiziano "terra nera", in riferimento alla materia prima che dà origine, come, in arabo, "al-kimya" si traduce in alchimia, la disciplina finalizzata alla trasformazione della materia tramite il fuoco.
Verso la metà del ‘700 il re Carlo di Borbone, incuriosito da grandi colonne di marmo cipollino che affioravano da un fondo noto come “Vigna delle tre colonne”, ne ordinò uno scavo archeologico e al di sotto di molti metri di residui marini, fu dissotterrato il cosiddetto Tempio di Serapide, così chiamato per il ritrovamento di una statua del dio, attualmente conservato al Museo Archeologico Nazionale di Napoli.
Il progetto espositivo, organizzato dall’Accademia di Belle Arti di Napoli in collaborazione con Aporema onlus, nell’ambito dell’ATI Macellum, è nato e realizzato grazie alla collaborazione con il Parco archeologico dei Campi Flegrei.
Gli studenti1 sono stati selezionati attraverso un concorso tematico che richiedeva di reinterpretare, creando un dialogo tra contemporaneo e antico, il tema degli elementi primordiali della trasformazione, la terra ed il fuoco, caratteristici della terra di origine vulcanica dei Campi Flegrei.
Così come Serapide, divinità egiziana creata per favorire l’incontro tra civiltà, i giovani artisti partecipanti hanno prodotto, con non poche difficoltà visti i tempi, sculture site specific, in materiali argillosi, terracotta o/e ceramica, in armonia con il contesto del sito archeologico.
Rubedo è l’installazione di Francesca Arduino, ispirata all'ultima fase alchemica della trasformazione della materia, solitamente rappresentata come un uovo di fenice. I 32 contenitori sferici di argilla cruda, che rimandano all’immagine di un cratere, contengono altrettante sfere in terracotta; l’argilla ha, infatti, subito la trasformazione del fuoco e subirà quella dell’acqua rilasciata dagli agenti atmosferici.
Salvatore Russo presenta una scultura di Dioniso con il satiro, che richiama i reperti archeologici rinvenuti durante gli scavi archeologici nel sito, con l’aggiunta di elementi contemporanei, come dei tagli che permettono di vedere oltre la superficie, oltre la materia fino all’anima stessa.
Visione di un’invasione è invece l’installazione di Lucia Schiettino che ha realizzato quattro sculture antropomorfe realizzate in terracotta e ferro, figure “mostruose”, aliene che “appena approdate all’interno degli spazi del Macellum, scappano rivolgendosi verso chi li guarda” dice l’artista. Il tempo, presente come tema principale dell’opera, regna nello spazio del sito quasi senza tempo, che accoglie passato, presente e futuro. Ma l’incontro avviene tramite gli occhi di chi osserva e che nell’atto, dell’incontro stesso, scompare.
A ruota di Antonio Salzano prende forma dal 2019, con una ricerca improntata a sensibilizzare il consumo della plastica. L’installazione è composta da 12 pneumatici in terracotta a grandezza reale che simulano un vero scarico illecito di rifiuti, tra i più dannosi per l’ambiente. L’artista ha applicato, prima della cottura, diversi prodotti chimici, non nocivi, per realizzare artificialmente e quindi accelerare, la sua corrosione. Un concetto interessante se lo si vede in chiave contemporanea e che è idealmente espresso anche dalla forma circolare dello pneumatico che rimanda al circolo vizioso della questione ecologica, difficile da arrestare, ma che invita alla mobilitazione e alla coscienza delle persone per rendere l’arresto possibile.
L’opera Omocronos di Roberto Pesacane alias Perseo, tratta come suggerisce il titolo, della percezione del Tempo. Due elementi compongono l’opera: una mano da cui scorre la sabbia del tempo dell’uomo, distinto dal tempo della materia, rappresentato da una meridiana solare.
Tammaro Menale invece ha proposto Revival, una dozzina di cassette della frutta stampate in argilla, accatastate come a simulare l’attività commerciale del mercato, come doveva avvenire nel Macellum. I contenitori vuoti innescano tutta una serie di interrogativi che mirano al confronto e al dialogo tra la serialità dell’oggetto, a noi contemporaneo e l’estetica del reperto.
La goccia che fa traboccare il vaso è il titolo dell’opera, molto intensa, di Biagio Salvati, in ferro e gres nero. Il riferimento è alla metafora secondo cui “per una goccia, si ha il superamento della soglia di sopportazione umana”. La forma si estende, perdendo la sua struttura in natura e si realizza in nuova materia manipolata, indice, il peso della rottura. Quest’ultima viene poi sorretta da tre tubolari in ferro, che la percorrono, fino a superarla, trafiggendola.
1 In mostra le opere di Francesca Arduino, Gaetano Fabozzi, Antonio Flumeri, Salvatore Mancino, Tammaro Menale, Rebecca Miccio, Roberto Pesacane, Rosanna Pezzella, Alessandro Piromallo, Salvatore Russo, Biagio Salvati, Antonio Salzano, Noemi Saltalamacchia e Lucia Schettino.