Ma mi diranno: Come si chiama?
E io che cosa risponderò loro?
Dio disse a Mosè: Io sono colui che sono.
Poi disse: Dirai agli Israeliti: Io-Sono mi ha mandato a voi.
Esodo, 3,13.14
Ringraziando il Cielo le allucinazioni non lo assalgono quando
guarda i programmi alla televisione
forse perché i programmni alla televisione
sono già allucinazioni
Il ricordo di Daniel, Marco Candida
Ho sempre amato gli scacchi. Non che sia un buon giocatore. Anzi, pessimo, autistico. Sono un tipo strano di giocatore di scacchi. Odio i libri sugli scacchi e con convinzione sfido il solidissimo luogo comune che vede questo gioco quale trionfo del razionalismo. Credo al contrario che non sia tutta razionalità quella che guida la partita. Se nella sua vita l’uomo è mosso da emozioni, istinto, intuizioni, e dal suo stesso corpo, dai suoi impulsi, dalle sue reazioni, perché non dovrebbe essere così anche nel giocare a scacchi? Quindi gioco “alla carlona”, senza pensarci molto. Così mi diverto. Così posso accorgermi in modo chiarissimo come il mio corpo le mie mani i miei occhi imparino dalla loro esperienza poco a poco.
Aristotele già avvertiva: "Ciò che dobbiamo imparare a fare lo impariamo facendolo!". Il corpoanima che siamo immagazzina percezioni e pratiche, metabolizza errori, stratifica scelte e azioni e ne emerge quella “saggezza pratica” che è la radice di ogni saggezza popolare. Anche negli scacchi. Che mi importa vincere partite complicate poi se non so fermarmi ad ammirare la bellezza delle forme dei pezzi e il fascino esoterico della stessa scacchiera? Quando studiavo Filosofia del diritto all’Università di Pavia, quel genio del Prof. Amedeo Giorgio Conte ci insegnava che le regole degli scacchi sono “tetiche”, cioè saltano d’un balzo la dicotomia fra “essere” e “dover essere” ponendosi come regole che sostanziano il gioco stesso, la sua realtà, il suo esserci. Senza regole non ci sono “gli scacchi”! Un gioco “strutturale”!
Una cosa semplice ma che continua da tempo a impressionarmi è percepire il gioco degli scacchi quale metafora della vita. L’esistenza all’inizio, ma anche ogni giornata che ci capita di vivere e ogni inizio anno, è come la scacchiera a pezzi fermi: innumerevoli possibilità di movimenti e combinazioni che generano altrettante innumerevoli possibilità di situazioni e contesti relazionali. Ma man mano che il gioco avanza, che i pezzi vengono mossi, anche senza perderne alcuno, le possibilità si restringono, il campo della virtualità si trasforma gradualmente nel campo della “determinatezza”, fatto di scelte sempre più incisive e dagli effetti determinanti fino alla “crocefissione” del Re nello “scacco matto”. L’identità è tutto negli scacchi e plasma progressivamente l’identità del giocatore.
E’ un gioco assai aristotelico, tutto fondato com’è nel passaggio dalla “potenza” all’“atto” della scelta risolutiva, ma pure mi ricorda quel geniale filosofo che fu Anassimandro con la sua teorizzazione dell’“a-peiron”, cioè dell’Indeterminato per il quale sostiene che “dove infatti gli esseri hanno l'origine, lì hanno anche la distruzione”. L’a-peiron è assai importante come concetto perché sembra corrispondere al chaos originario del mito greco (ma pure di Genesi) e rispetto al quale noi e il cosmo nelle sue altre partizioni appariamo quali “separazioni”, quali alienazioni. Dopotutto l’etimo latino di “esistenza” riprende questa idea del “distacco” creativo originario. L’a-peiron quale placenta universale! La nostra vita quindi esce dall’a-peiron e marcia, che vogliamo o meno, verso la “determinatezza”, come in una partita a scacchi. Di qui penso prenda origine il senso sacrale, nobile e solenne dell’antico gioco.
Ogni scelta (e anche la non-scelta è scelta che genera conseguenze) riduce, approfondisce, “specializza” il nostro cono esistenziale proiettandolo verso un determinato scenario che ad un certo punto sarà sempre più difficile modificare e variare. Gli antichi romani, gente “risoluta”, vedevano questo senso esistenziale di “risoluzione” in modo positivo, a differenza dei più anarchici e fatalisti greci che recavano nella loro mente la costante paura dell’ybris (e chi è l’offeso dall’ybris se non l’A-peiron?), e infatti avevano il culto del Fato e dell’eroico abbracciare la via del Destino. Per Roma il “delimitato”, come il solco che fonda l’Urbe, è superiore all’Indistinto. I Greci invece ondivagano, fluttuano. Gli scacchi inoltre ci insegnano che ogni singolo movimento genera effetti generali su tutta la scacchiera.
Mi ritrovo in questa lezione etica proprio nel considerare la mia/nostra percezione sociale e nel riflettere su cosa è accaduto nel e dopo l’89. Sì perché dalla caduta del muro di Berlino in poi si è verificato un “cambio di paradigma” che è ancora in corso, dagli esiti non facilmente e interamente prevedibili. Il 1989 quale tempo simbolico è una chiave di volta per la percezione dell’Identità. E’ come se l’“inconscio collettivo”, l’autocoscienza umana quale fenomeno sociale, abbia iniziato a invertire alcune importanti dinamiche. Il Nemico si è dissolto. O meglio: si è dissolta una schematizzazione est/ovest, destra/sinistra, che è archetipica, fisica, prima che culturale o politica. E’ sorta un'altra dinamica mondiale di massa: il rapporto fra Centro/Periferia. Non a caso Papa Francesco parla di periferie e non a caso la parola “periferia” ricorda come etimo il “peiron” di A-peiron che significa letteralmente: Non-recintato. La Periferia vuole tornare al Centro!
Dal 1989 in poi abbbiamo assistito a una crescita di un fenomeno tendenziale unico che presenta una varietà incredibile di manifestazioni apparentemente estranee le une dalle altre: la valorizzazione dell’enogastronomia locale e territoriale, una nuova passione per la Messa in latino, la nascita di movimenti religiosi intensamente focalizzati e anche fondamentalisti (non solo islamici, ma pure protestanti, induisti buddisti e di nuovi movimenti cattolici quasi settari), una nuova simpatia per i linguaggi simbolici, il culto del viaggio e un rinnovato interesse per l’Oriente e in genere per le culture lontane, il diffondersi di una serie variegatissima di corsi, di discipline (marziali, new age, salutiste, olistiche, ecc.). Cosa hanno in comune fra di loro tutti questi fenomeni? Una cosa: il concetto di “ritorno” e il concetto di Identità. Si tratta di forme differenti di una medesima istanza esistenziale profonda: uscire da se stessi per ricostruire una propria identità personale ricollocandola in una riappropriazione del senso del “kosmos”.
Non sappiamo più dove stiamo andando. Non ci piace molto navigare “a vista” per lungo tempo. Rivogliamo una “bandiera” accanto alla quale accamparci! Questa assenza di direzionalità emerge con forza anche nella narrativa. Non solo in Baricco e nella sua teoria (non originale) che il “net” sia più importante della profondità e che quindi l’attuale Tempo sia sostanziato inesorabilmente (sembra di sentire parlare Marx) dal must del rimescolamento/contaminazione come ha sostenuto più volte su Repubblica e nel suo saggio I nuovi barbari ma anche in veri e propri genuini percorsi narrativi che superano il concetto stesso di romanzo per approdare a una narrazione pura, fuori da un centro assiologico.
Ne abbiamo un esempio ottimo nei romanzi di Marco Candida. Nella sua ultima opera la trama stessa diventa oggi socialmente allegorica: il giovane protagonista ha un incidente in automobile e resta in coma per qualche settimana. Al risveglio non ricorda nulla di quello che famigliari, fidanzate e amici gli raccontano di lui stesso e della sua precedente vita. Nonostante le possibili associazioni ideative (Goodbye Lenin, 2003, film di Wolfang Becker, e il classico ma intramontabile Enrico IV di Pirandello) si tratta di un romanzo che sta in piedi da solo ed esprime un canone esistenziale che corrisponde ormai quasi a un'impostazione di default propria delle generazioni adolescenziali contemporanee. L’“adolescenza” si è dilatata così tanto da assorbire ogni distinzione valoriale, tanto da non voler essere risolta. Tutto oggi è “fluido”! Non a caso Il ricordo di Daniel è strutturato come una sequenza di sceneggiatura ancora in fase di montaggio. E’ un romanzo del tutto privo di centro di risoluzione ma tutto sostanziato da un progress di oscillazione fra due poli: il tema della dissolvenza dell’identità che ci deriva dall’altrui percezione (spesso sartrianamente infernale) e il tema della fatica/voglia di costruire una propria “identità minima” quale spazio abitabile fra letto, frigo, tv e fidanzata.
Lentamente ma inesorabilmente, fra cronache lucidissime con dati spaziotemporali assai precisi, e improvvise visioni surreali, si è guidati per mano al fine di prendere coscienza del fatto che la questione dell’identità precaria e da rimettere in discussione e riconquistare continuamente non è tema per “anime belle” o per esteti più o meno decadenti, ma è condizione generale e quasi strutturale del vivere... Forse senza saperlo ha ragione Candida nel dirci come “ricordare diventi ricordare di ricordare” e come “le cose nella mente sono liquide (…) il pensiero non sia altro che delirio dalla realtà ma le cose solide, consistenti, reali non sono forse fatte tutte quante di luce?”. In questo scenario del tutto “fluido” l’allucinazione è un fenomeno fra gli altri. L’importante è conviverci, sostenerla. “Ci sono coccinelle attorno al collo della donna che sostiene di essere sua madre. Poi naturalmente c’è la luce nei loro sguardi. Quando le persone a tavola si mettono a ridere per qualcosa che ha detto Sara o forse Barbara, Daniel vuole quasi mettersi a urlare. Non sa dove guardare. Lancia occhiate brevissime a tutto…”. Non ci appare quindi attualissima la Coscienza di Zeno con il suo compiacimento borghese e le sue tensioni nichiliste, dove la surrealtà appare quale condizione di una vita animata paradossalmente da una cupio dissolvi?
Sembriamo vivere oggi fra due polarità entrambe teorizzate da Nietzsche, fra il mito autogestito e domestico dell’“uomo pulce” e il virus dell’inquietudine da Übermensch. Il nostro Daniel così diventa involontariamente un'icona allegorica sociale: “Infatti lavorando si sta dimenticando di quel se stesso che non ricorda più chi è se stesso in favore di un nuovo se stesso che pensa a lavorare e basta. Per cercare di trovar se stesso adesso deve prima ritrovare quel se stesso che stava cercando se stesso e a volto stravolto per il lavoro non ha nemmeno voglia di fare più questa ricerca. Vuole solo tornare a casa, mangiare qualcosa con Sara, mettersi davanti alla televisione e addormentarsi”. In effetti basta aprire la tv o andare al cinema per notare come sia in crescita il fenomeno del remake e quanto funzioni l’“operazione nostalgia” (Meteore, I miglior anni) o l’operazione duplicazione (Tale e quale show) senza considerare il filone sempre attivo in Italia di perenne revival degli anni '70 (quando passeranno?), più o meno idealizzati come nell’ultimo Anni felici.
Il cinema già da tempo ha colto subito la palla al balzo: pensate a quante opere dedicate allo scontro, alla lotta, al combattimento, al concetto di “ritorno” e di “ultimo/primo”. L’Ultimo samurai e il Primo cavaliere, per esempio. Deficit di identità. Anch’io mi trovo ad ammirare inspiegabilmente film del tutto dedicati all’eleganza delle movenze del kung fu, al senso di precisione e di calma dato dalla pratica delle cinque arti Zen, o mi trovo a sognare nei paesaggi surreali del neomedioevale Tolkien, la cui fortuna creativa deriva dai suoi studi di professore universitario sui romanzi cavallereschi medioevali e sull’inglese antico.
Volete altri esempi di questa generale “sete di identità”? Facilissimo: l’abbigliamento giovanilistico di certi cinquantenni/sessantenni alla Vasco Rossi/Moccia e la pubblicità di Coca Cola e Nutella che rendono più affettuosi e complici i loro prodotti giocando ad applicarci sopra dei nomi. Un altro caso emblematico di gestione commerciale dell’Identità in una situazione di fragilità e deficit lo troviamo nella trasformazione radicale di Hanna Montana nella Cirus supersexy la cui lingua perennemente all’aria mi ricorda archetipicamente la lingua estroflessa della dissolutiva Kalì! Ma lo stesso Papato fatica a confrontarsi con la questione chiave dell’Identità, almeno dal Concilio Vaticano II in poi (che possiamo definire l’“89” della Chiesa cattolica): ci gioca, la insegue, la corteggia. Tragicomica ad esempio la rinuncia che fece Benedetto XVI al titolo pontificio di “Patriarca d’Occidente”, ritenuto un titolo tradizionale eccessivamente vetusto. Ebbene questa rinuncia (mai giocare con i simboli, si vendicano!) causò irritazione e risentimento presso la Chiesa Ortodossa perché fu al contrario letto quale forma di “ri-espansione” universale di presunte rivendicazioni egemoniche della Chiesa cattolica sull’intera terra, invece che un segno di “umile ammodernamento” qual’era!
Questo conferma la giusta idea costante di Heinz Von Foerster: “Il significato di una proposizione viene deciso da chi la riceve”! E qui entriamo nel perenne dibattito sul “dialogo” che anima (e tormenta) sia la Chiesa cattolica che il mondo moderno. Il tema del Dialogo è veramente “dialogico”, cioè trasversale. E non c’è tema più cruciale nel coinvolgere la questione “Identità”, anche se spesso viene data frettolosamente per presupposta. Come può un liberale dialogare con un fanatico? Come può un Papa cattolico del 2013 dialogare con un patriarca ortodosso che segue una mentalità nazionalista e medioevale? La Chiesa e la modernità sembrano inseguirsi come due amanti, strabici ed esaltati come ogni amante, ripercorrendo la via circolare di quel famoso vaso antico. Chi insegue e chi è inseguito? Non è dato capirlo in un vaso circolare! Vince chi fugge o chi insegue? Esiste ancora poi una Modernitas? Può esistere senza più una Tradizione? Non è il metamorfismo forse l’unico connotato unitario di ogni attuale Modernitas? Chi per definizione deve restare uguale a se stesso, come la Chiesa cattolica nella sua Dottrina bimillenaria, come può dialogare con una Modernità che per definizione a sua volta deve mutare continuamente? Altro bel paradosso!
Ancora una volta il dialogo potrebbe ridursi all’incrocio di due monologhi fra Parmenide ed Eraclito, o potrebbe ridursi a due tentativi, opposti ma speculari, di camaleontizzazione con l’Altro. Con Papa Francesco poi abbiamo un Papa che appare di un altro pianeta rispetto a Benedetto XVI e fa apparire medioevale il suo predecessore, ma nello stesso tempo lui stesso sembra recitare una parte precisa, quasi “populista” e astutamente omnicomprensiva nella quale la sua predicazione assorbe tutto sfumando i confini stessi fra Tradizione e Innovazione. Un Papa più mediatico degli stessi media? Riuscirà a reggere il circo compulsivo della “società dello spettacolo”, per dirla ancora con Debord, che alimenta incessantemente la corsa della circolare gabbietta per i suoi criceti?