Da sempre il volto è lo “specchio dell’anima” e in quanto tale viene esplorato come il luogo privilegiato su cui si disegnano i caratteri e le emozioni dell’uomo. Ed è quanto ha fatto la fisiognomica, una disciplina pseudoscientifica che cerca di dedurre i caratteri psicologici e morali di una persona e del suo aspetto fisico, in particolare dai lineamenti e dalle espressioni del volto, e sin dall’antichità essa ha intrecciato i suoi percorsi con ambiti molto differenti tra loro.
Ora, al Museo Nazionale del Cinema di Torino, su questi temi è in corso fino al 6 gennaio 2020 la mostra #FacceEmozioni. 1500-2020: dalla fisiognomica agli emoji. Curata da Donata Pesenti Campagnoni e Simone Arcagni, l’esposizione, partendo dalla collezione del Museo Nazionale del Cinema, racconta gli ultimi 5 secoli di storia della fisiognomica, lungo un percorso emozionale tra maschere e sistemi di riconoscimento facciale che testimoniano come il volto sia il più importante luogo di espressione dell’anima dell’individuo.
La mostra intende tessere le fila di un discorso antico - le cui origini risalgono addirittura ad Aristotele - per arrivare ai nostri giorni scavando nei tratti del volto, ma anche nella sintesi grafica degli emoji, nei riscontri dei caratteri e delle emozioni delle persone: una sorta di “catalogo” in grado di catturare gli occhi e di sedurre la mente di chi osserva, chiamato a specchiarsi e a riconoscere il proprio volto in una folla di visi tratteggiati, caricaturizzati, deformati, sublimati a partire da Leonardo da Vinci fino ai più recenti segni dei nostri tempi: gli emoji.
La rassegna, attraverso un originale percorso trasversale investe ambiti e periodi differenti, facendo del “volto delle emozioni” uno spazio di trame complesse che collegano arte e teatro, cinema e animazione, per arrivare alle nuove tecnologie. 180 le opere in mostra che includono 82 riproduzioni fotografiche, 55 opere originali (dagli elmi e dai volumi del ‘500 alle installazioni di artisti contemporanei), 43 tavole tratte dalla collezione di fisiognomica del museo, 42 montaggi, 4 App e 8 installazioni.
Il percorso si concentra sulle arti performative e si intreccia con arte, scienza, tecnologia e comunicazione: dall’Aula del Tempio alla Rampa Elicoidale, si ritrovano così i cataloghi del famoso fisionomo del ‘500 Giovan Battista Della Porta (De humana physiognomia) che vede l’analogia tra uomini e animali, o le indagini di Johann Caspar Lavater sullo studio dei volti del primo pittore del Re Sole, Charles Le Brun, ai vetri per lanterna magica e agli emoji, o ai manuali per l’attore - di teatro prima e di cinema poi - alla tecnica del morphing, ai più avanzati software di face tracking e alle opere di artisti contemporanei che esplorano il volto e le emozioni.
Faccine o emoji che comunicano l’emozione del momento, software in grado di riconoscere un volto, di ricostruirne o manipolarne i tratti somatici: sono tutte esperienze che caratterizzano la società tecnologica contemporanea ma che hanno radici profonde nel passato. Gli emoji sono stati inventati in Giappone per inviare immagini unitamente ai caratteri di testo sui primi rudimentali dispositivi di comunicazione, come cercapersone e telefoni cellulari. Il termine emoji è giapponese e si traduce letteralmente con “carattere pittografico”: deriva da “e” (immagine) + “moji” (carattere).
E lungo il percorso espositivo, tra le immagini più curiose è possibile ritrovare anche la famosa attrice teatrale Adelaide Ristori in Maria Stuarda in una carte de visite di Disdéri & C. (1855-1860), oppure Eleonora Duse in una ripresa de La città morta, i ritratti dall’intensa verve mimica di Dario Fo, o di Rena Mirecka in Akropolis uno spettacolo di Jerzy Grotowski sui campi di sterminio nazisti, con il corpo che si muove, e il volto irrigidito in un’espressione fissa. O, ancora, i frammenti dall’Antigone del Living Theatre in una foto di Carla Cerati. Ancora, nel piano dedicato all’Archeologia del cinema I 1000 volti di Lombroso, sono le fotografie - esposte per la prima volta - appartenenti al fondo fotografico dell’Archivio del Museo di Antropologia criminale “Cesare Lombroso” dell’Università di Torino, che apre nuove riflessioni nell’epoca dei social, su “faccine” e identità e sul nostro sguardo circa il mondo e gli altri.