L’essere umano è fin dalle sue origini filogenetiche un ibrido, un camaleonte culturale ibridato con l’alterità tecnica, animale e vegetale. La tecnica si è già inserita nel corpo ancor prima dell’epoca postmoderna: la forma delle mani si è evoluta in base alla manipolazione di oggetti e realtà esterne, così come le altre facoltà biologiche e culturali si sono sviluppate in base a fattori esterni selettivi di competizione e collaborazione intraspecifica e interspecifica, ma non solo, anche in base alla possibilità o meno di relazionarsi con la realtà inanimata con cui la specie umana ha sempre avuto relazione. Come le forma della mantide orchidea (Hymenopus coronatus), che, in una foresta, dipende dall’instaurarsi dell’habitat, dell’alterità materiale e della partnership evolutivo-mutualistica nel suo codice genetico, così la collaborazione con il mondo inanimato e con l’alterità animale e vegetale si è instaurata nel codice genetico della nostra specie, nella nostra carne (la tecnica come potenziamento, prolungamento di facoltà o di sensi) come nelle nostre produzioni culturali. L’essere umano è uno dei più importanti progetti compartecipativi creati dalla natura, il che lo rende per definizione un organismo dipendente, correlato e ibridato con l’alterità naturale, abolendo qualsiasi pretesa di purezza, unicità, essenzialità platonica. Come ampiamente dimostrato dalla biologa Lynn Margulis; la vita non colonizzò il mondo attraverso il combattimento ma istituendo interrelazioni. Le forme di vita si moltiplicarono e divennero sempre più complesse attraverso una cooptazione di altre, non soltanto attraverso la loro estinzione. La visione dell'evoluzione come competizione cruenta cronica tra individui singoli e specie, distorsione della teoria darwiniana della "sopravvivenza del più idoneo", si dissolve dinanzi alla visione nuova di una cooperazione continua, di un'interazione forte e di una dipendenza reciproca tra forme di vita.
Dal paramecio all'uomo, tutte le forme di vita sono dotate di un'organizzazione minuziosa, sono aggregati raffinati di una vita microbica in evoluzione. Lungi dall'essere rimasti indietro in una "scala" evolutiva, i microrganismi ci circondano e compongono il nostro essere. Tutti gli organismi attuali, essendo sopravvissuti fin dagli albori della vita lungo una linea che non si è mai interrotta, si trovano a un eguale livello di evoluzione. Questa constatazione serve a smascherare in maniera netta la vanità e la presunzione insite nel tentativo di misurare l'evoluzione mediante una progressione lineare dal semplice (il cosiddetto inferiore) al più complesso (con gli esseri umani in cima alla gerarchia, come le forme situate in assoluto "più in alto"). Ma gli organismi più semplici e più antichi sono non soltanto i predecessori delle comunità biotiche terrestri e del loro attuale substrato, ma sono anche pronti a espandersi e a modificare se stessi e il resto dei viventi, se noi, organismi "superiori", fossimo così stupidi da annientarci. La visione dell'evoluzione come competizione cruenta cronica tra individui singoli e specie, distorsione della teoria darwiniana della "sopravvivenza del più idoneo", si dissolve dinanzi alla visione nuova di una cooperazione continua, di un'interazione forte e di una dipendenza reciproca tra forme di vita.
Sotto il controllo del DNA, la cellula vivente produce una copia di sé, sfidando così la morte e conservando la propria identità attraverso la riproduzione. Eppure, essendo anche suscettibile di mutazioni, che modificano a caso la sua identità, la cellula ha la capacità di sopravvivere al cambiamento. Nel corso degli ultimi cinquant'anni gli scienziati hanno osservato che i procarioti trasferiscono abitualmente e rapidamente differenti frammenti del loro materiale genetico ad altri individui. In qualsiasi momento, ogni batterio può utilizzare questi geni accessori, che provengono talvolta da ceppi molto diversi e svolgono funzioni per le quali il suo DNA non è competente. Alcuni di questi frammenti vengono ricombinati con i geni originali della cellula; altri vengono ulteriormente trasferiti. Alcuni frammenti genetici estranei possono inserirsi facilmente anche nell'apparato genetico delle cellule eucariotiche (per esempio, le nostre cellule). Adattandosi costantemente e rapidamente alle condizioni ambientali, gli organismi del microcosmo sostengono l'intera comunità biotica, dato che la loro rete di scambi globali interessa, in definitiva, ogni pianta e animale vivente. Un "superorganismo" che comunica, collabora e coopera su una scala spaziale e temporale che trascende il genere umano, creando alleanze che non sono semplicemente la somma delle loro rispettive parti che entrano in simbiosi, ma piuttosto qualcosa di simile alla somma di tutte le possibili combinazioni di queste parti. La simbiosi, la fusione di più organismi in nuovi collettivi, dimostra di essere il più grande motore di cambiamento sulla Terra. La storia di ogni individuo che cresce, che raddoppia la propria mole e che si riproduce, è una storia di grande successo. Eppure, proprio come il successo del singolo individuo si riassorbe in quello della specie a cui egli appartiene, così la specie viene inglobata nell'intreccio che interessa tutti i viventi: un successo che ha un ordine di grandezza ancora superiore.
Il nostro corpo contiene in sé una vera e propria storia della vita sulla Terra. Le cellule conservano un ambiente ricco di carbonio e di idrogeno, come quello della Terra quando la vita ebbe inizio. Vivono in un mezzo costituito da acqua e sali, che ricorda la composizione dei mari primitivi: diventammo quelli che siamo grazie all'associazione di partner batterici.
Queste e altre reliquie viventi di individui un tempo separati, scoperte in varie specie, non fanno che accrescere la certezza che tutti gli organismi visibili si siano evoluti per simbiosi, cioè vivendo insieme in una condizione di reciproco beneficio mediante la condivisione permanente di cellule e corpi. Deriviamo, lungo una sequenza ininterrotta, dalle stesse molecole presenti nelle cellule primordiali. I nostri corpi, come quelli di tutti gli esseri viventi, conservano in sé l'ambiente di una Terra passata. Coesistiamo con i batteri di oggi e ospitiamo in noi vestigia di altri batteri, inclusi simbioticamente nelle nostre cellule. In questo modo, il microcosmo vive in noi e noi in esso. Una prospettiva del genere fa crollare ogni presunzione umana di sovranità su tutto il resto della natura, essa lancia la sfida anche alle nostre concezioni di individualità, di unicità e di indipendenza.
Non rispetta nemmeno la visione che abbiamo di noi stessi come esseri fisici ben distinti, separati dagli altri viventi. Il pensare all'umanità e all'ambiente che la circonda come a un mosaico di vita microscopica è come immaginare che essa venga presa, dissolta, annientata.
Ex novo: Esiste un io? Esiste un noi? Siamo ibridi riottosi a ogni classificazione, nodi di una rete che lega in una catena ininterrotta fattori molteplici e distanti, e che rischiano di far saltare tutti gli ordinamenti, tutti i programmi, tutti gli effetti. Fluttuiamo insieme agli elementi, non c’è nessun “io” e nessun “noi” umano. Noi stessi siamo fatti di miliardi e trilioni di piccoli parti dotati ciascuno di intelligenza propria, che si tratti di una cellula o di qualcosa di ancora più piccolo, una particella subatomica. Quindi non esiste in realtà nemmeno il “noi”. Esiste come equilibrio provvisorio, fragile di coalescenza tra cose diverse. E quel “noi” ha una molteplicità in sé e agisce costantemente con tutti gli altri artefici del mondo, animati e inanimati. Il Sé Emerge dalle Comunità (Batteriche). L’identità non è un oggetto ma un processo che si espande in ogni direzione e dimensione, e quindi non può essere definita attraverso un numero singolo.