L’oro nasce dall’argento, il rosso dal bianco, il sole dalla luna, una coscienza più chiara dalla follia.
(James Hilmann, Psicologia alchemica)
In alta Val d’Ayas abbondano le iscrizioni secolari su pietre e baite con la celebre lettera W indicante la popolazione di origine germanica dei Walser, che si stabilì sulle alpi italiane tra il X e il XV secolo in varie localizzazioni dalle alpi veneto-lombarde a quelle nord-piemontesi e valdostane orientali, attorno al gruppo del Monte Rosa. Nella località Walser di Soussun (1950 m.) nei pressi di Champoluc possiamo ammirare i resti in pietra di un piccolo mulino per cereali, con ancora il ruscello che vi passa attraverso, mulino in funzione fino a pochi decenni fa. Sull’architrave della porta del mulino si possono leggere una data, 1601, il diffuso cristogramma IHS, la celebre W e poi un simbolo che non ti aspetti: una croce greca intensificata da quattro croci patenti nelle sue estremità.
I simbolismi geometrici antichi si articolano in tre grandi tipologie: quelli astronomici, quelli metallurgici e quelli costruttivi-corporativi. Questa croce incisa sulla pietra ricorda i simbolismi metallurgici, in parte passati anche nei linguaggi e negli alfabeti alchemici. L’ambiguità della possibile semantica appare molteplice. Abbiamo una prima ambiguità data dal rapporto fluido e non certo tra grafie metallurgiche, indicanti operazioni o materiali, e criptoalfabeti utilizzati nella parallela cultura alchemica. Successiva ambiguità è data dalla diffusa presenza della croce quale segno utilizzato in entrambi i linguaggi. Sul mulino di Soussun non appare credibile un utilizzo semplicemente religioso di questa croce moltiplicata in quanto già appare il cristogramma diffuso da San Bernardino da Siena a “cristicizzare” la vitale funzione pratica del mulino.
Si rivela invece interessante l’ipotesi metallurgica, in considerazione, a livello pratico, di una possibile multifunzionalità del mulino stesso. Il segno della croce in ambito metallurgico indica la funzione-luogo del crogiuolo di fonditura. Alchemicamente la croce greca patente può indicare più sostanze rilevanti nel processo trasformativo come l’aceto e il talco verde (qualunque cosa siano!), come ci ricorda il Teatro d’Arcani del bergamasco Lodovico Locatelli (1667), oppure la tuzia, o direttamente questo segno indica la lavorazione termica dell’oro (roasting of gold). Questa possibilità interpretativa apre il discorso in profondità sul tema delle cause, ancora ignote, dell’arrivo di tale popolazione in Italia e del suo stesso permanere quale popolazione differenziata dalle altre comunità montane.
La prima stranezza è data dal fatto evidente del loro stanziarsi ad alta quota, fra i 1500 e i 2500 m. Il fatto che il clima medioevale fosse più caldo dell’attuale, con assenza di ghiacciai e tutti i valichi alpini transitabili, svolgerebbe un ruolo esplicativo dell’identità dei Walser se fossero state comunità dedite al commercio. Non risultano invece particolari specializzazioni di tale micropopolo alpestre, che sembra aver vissuto per secoli avvolto da una coltre di silenzio, isolamento e riservatezza. L’ipotesi che qui si pone è molto semplice e si precisa nel ritenere che i Walser si dedicassero, oltre che all’allevamento e alla coltivazione di cereali, come tutti (allora possibile fino a 2000 m) proprio all’attività mineraria estrattiva e alla lavorazione di metalli pregiati. Non dimentichiamo che il Monte Rosa cela filoni minerali di oro, avvolto da strati di quarzi e silicio, come la miniera di oro nativo di Brusson dimostra.
Se così fosse i Walser non avrebbero dato fastidio alle comunità autoctone dedite al commercio e alla più ricca agricoltura di bassa valle. Se così fosse si spiegherebbe il carattere chiuso e schivo di tali comunità, per il resto del tutto analoghe a qualsiasi popolazione montana italiana ed europea, e la loro stessa diffusione, motivata dal seguire le localizzazioni minerarie montane. Un altro indizio di simbologie metallurgiche è dato proprio dall’emblema stesso del popolo Walser. Si tratta di una specie di croce chiusa a sinistra a formare un mezzo triangolo e innestata su di un cuore (che ricorda quello della Camargue) articolato in tre parti, due simmetriche e una inferiore con al centro un fiore/stella, probabilmente alpina. Parliamo della versione valdostana dell’emblema, come si ammira nella segnaletica della località di Soussun, e non della simile versione tedesca, che presenta una serie di stelle bianco-rosse.
La stella comunque compare in entrambe le versioni dello stemma, e, sarà un caso, anch’essa appare leggibile ermeticamente, indicando il “mercurio del mondo o magnesia” secondo Eugene Canseliet. La parte superiore dell’emblema, geometrica e quasi un apax, non corrisponde ad alcun immaginario araldico conosciuto, né rinvia a conosciuti segni astronomici o runici, ma ricorda invece le grafie alchemiche. Renè Alleau nel suo saggio “Aspetti dell’alchimia tradizionale” riporta in appendice il segno dello zafferano magistrale e del quarteron, di grafia simile al mezzo triangolo Walser. La grafie alchemiche tollerano sempre un margine di variabilità e molteplicità di usi, a parità semantica. Il mezzo triangolo, che intero indica lo zolfo, potrebbe essere una variante Walser della grafia ermetica. Un triangolo diviso in due, ma orizzontalmente, compare come segno dell’azoth nella Cabala di Michelspacher (1616).
Abbiamo quindi un emblema Walser unico nel suo genere, curiosamente complesso e preciso per un popolo così semplice e povero di documentazione storica. Se il segno geometrico dell’apice fosse espressione del numero 4, anche in questo caso si potrebbe alludere alla grafìa ermetica, così attestata ad esempio in un’opera di D.A. Freher (1764), ad indicare la quarta qualità, propria della terra salnitrica, e in un’altra opera tedesca, ripetuto quattro volte in un disegno di cosmogonia ermetica (Geheime Figuren der Rosenkreuzer, Altona, 1785). Anche la numerologia delle stelle può corrispondere all’Arte Regia nella sua ambivalenza del 10 complessivo, la tetraktis pitagorica, e della duplicazione del 7, se viste a due gruppi secondo i colori rosso-argento alternati a specchio.
Tale possibile attività metallurgica, svolta quasi in segreto da piccoli clan-corporazioni famigliari, spiegherebbe la sopravvivenza identitaria ed economica dei Walser all’interno di un medioevo montano altrimenti assorbente, considerando anche come l’attività metallurgica fosse stata anticamente vista con sospetto quale attività pericolosa e quasi magica. Più facile guadagnare con la via del sale fra sud e nord! Non dimentichiamo che l’alta valle d’Ayas presenta anche un’altra stranezza: si tratta di un toponimo privo di localizzazione specifica. Esiste il “Comune di Ayas”, ma è un “Comune diffuso”, che ricomprende più centri, nessuno dei quali si chiama “Ayas”. La mancata o perduta localizzazione abitativa dell’“Ayas originale”, potrebbe essere connessa con la presenza Walser quale comunità metallurgica autarchica predominante, o derivare da un centro abitativo archetipale più elevato, oggi coperto dai ghiacciai del Rosa o distrutto per cause naturali nei secoli passati, quando l’ultima piccola glaciazione indebolì, disperse e fece scendere più a valle i Walser “normalizzandoli” e de-minieralizzandoli gradualmente.
Questo approccio spiegherebbe anche l’assenza tra i Walser di tracce costruttive differenziali o più strutturate, che erano necessarie invece per l’altra attività montana redditizia nei secoli passati: il pagamento dei dazi di frontiera e la connessa edilizia civile e militare. Non dimentichiamo infine che l’immagine del cuore, aperto in triplici anse nell’emblema, rinvia archetipicamente sul piano minerale proprio all’oro! Il cuore articolato in tre zone compare in una celebre miniatura di Jean Perreal per Margherita d’Austria (1516), dove come allegoria dell’alchimia (Opus naturae) si dipinge un albero nel suo centro cuoriforme e tripartito. Si tratta di un topos del linguaggio ermetico nei secoli. Ricordiamo l’emblema di Robert Fludd che rinvia ad Ezechiele 37 (Francofortem, 1630), e i tre cuori a spirale di Stolcius (Viridarium Chymicum, 1624). Non si usa ancora oggi la parola “vena” per indicare un filone metallifero?