La Prima guerra mondiale fu anche occasione per studiare più approfonditamente alcuni casi clinici. Era già capitato, di osservare la vitalità di un uomo vissuto per 20 anni con un proiettile nel ventricolo destro e deceduto a causa di una polmonite, oppure di un altro che visse 6 anni con una palla di fucile nel cuore.
Durante la guerra, i casi di sopravvissuti a ferite cardiache con proiettili o parti di essi rimasti nell’organo si sommarono, con conseguenti casi di studio. Si cita, ad esempio, di un uomo classe 1888 di Castelverde, Brugnoli Ernesto, ferito alla spalla durante l’offensiva sull’Isonzo del 4-5 agosto 1915 che, pur lamentando dolori al petto, non venne curato per una probabile ferita vicina al cuore, dato che per i medici era improbabile una traiettoria tale del proiettile che gli aveva causato la perdita del braccio. Finalmente, passando da un ospedale all’altro, nel giugno del ‘16 il soldato ottenne di essere rimandato a casa, dove morì un mese dopo. L’esame autoptico rivelò che la causa della morte era stato proprio un proiettile nel cuore, in una nicchia di circa 3 centimetri, causa dei dolori atroci lamentati dal povero ferito senza che nessuno potesse diagnosticarne correttamente la causa. L’organo venne mantenuto per poter studiare il caso.
Nell’aprile 1917, all’Accademia medico-fisica di Firenze, il professor Luisada illustrò un altro caso di traumatologia di guerra: argomentato con fotografie e radiografie, fu possibile mostrare come un soldato vivesse con un proiettile austriaco nel cuore dove si era parimenti incistato. Il maggiore medico Goffredo Pierucci presso l’ospedale militare principale di Brescia, dimostrò altri 2 casi significativi. Un soldato era stato ferito nel ‘15 da un proiettile di shrapnell penetrato nella cavità addominale senza ledere organi vitali, quindi passato obliquamente nel diaframma ed entrato nel ventricolo destro del cuore dove rimaneva causando solo alterni problemi respiratori. Nel novembre 1916, invece, un ufficiale ferito nella regione mammellare sinistra ebbe il proiettile rimbalzato sullo sterno e conficcatosi nel cuore, con soli problemi respiratori anche in questo caso.
La radioscopia permise di dimostrare i movimenti dei proiettili nell’organo durante la vita dei pazienti. Gli studi si moltiplicarono non solo relativamente ai soldati. Era evidente come le donne lavorassero molto e, spesso, molto più di quanto avrebbe fatto un uomo, date le necessità del tempo di guerra. Tuttavia, il confronto tra donne di città e di campagna metteva in risalto come queste ultime non solo fossero sottoposte a lavori molto più pesanti, ma fossero il ritratto della salute. Ciò fu imputato all’aria aperta, ai vestiti morbidi e larghi e, di conseguenza, a minore acido urico nel sangue. Pertanto al miglior funzionamento renale. Veniva consigliato, quindi, di sospendere per qualche momento i lavori di casa e di dedicarsi a una passeggiata corroborante, assieme al largo consumo di acqua e di cibi sani, uniti a buone dormite. Una migliore salute sarebbe stata sinonimo di miglior vita e migliore aspetto. Senza accennare alla paura causata dalla guerra e alla scarsità di cibo che, spesso, rendeva impossibile riposo e serenità.