29 Arts in Progress gallery di Milano (via San Vittore), in occasione della prima edizione di Milano PhotoWeek 2017, rende omaggio a uno dei più grandi maestri della fotografia contemporanea, Gian Paolo Barbieri e, in particolare, al ciclo “tropical” del suo lungo itinerario fotografico: quello che lo vede, a partire dagli anni Ottanta, in luoghi esotici e lontani, a collezionare ritratti inediti di un’umanità e di una natura intatta, frammenti di memoria destinati a perdersi per sempre, attimi sottratti a un processo di metamorfosi e devastazione inarrestabile. Barbieri si trova dunque, forse per la prima volta, completamente da solo dietro alla macchina fotografica e davanti a un soggetto che non ha bisogno, anzi non concepisce alcuna possibilità di alterazione o di setting.
Quel che resta è la qualità dell’attenzione e l’onestà intelligente di uno sguardo capace di accedere autenticamente all’interiorità del soggetto.
Cionondimeno Il fotografo non crede romanticamente che esista ancora una natura incontaminata popolata di selvaggi senza cultura: il tempo è implacabilmente trascorso e il flusso delle cose trascina continuamente forme e linguaggi con sé verso il nulla. Per questo il vuoto lasciato dallʼirrecuperabile è da lui riempito di senso estetico, di gusto, di allusioni alla storia dell’arte.
La fotografia di Barbieri condivide con il Barocco la fisicità ipertrofica, lʼesigenza monumentale, la vocazione estatica, la simbiosi fra forma plastica e forma luministica, e il sentimento del sublime; condivide con Gauguin certe fughe appassionate nel lontano e lʼinsostenibile dolcezza del temperamento contemplativo. Ma, coerente con la propria intelligenza, osserva la metamorfosi della natura in oggetto e la registra con estetica implacabile.
Il rapporto di Barbieri con la storia, e con la storia della pittura, è dichiarato e disincantato. Dei fotografi contemporanei Barbieri è senzʼaltro tra coloro che hanno sempre manipolato la libertà dʼinvenzione con più maestria e più coraggio, incurante, anzi compiaciuto di elidere i confini fra vero e falso, fra spazio artificiale e spazio praticabile. A questo punto sono le immagini a condurre il gioco e la realtà, a inseguirle. In mondi lontani, sospesi sul crinale della bellezza. Barbieri non parte per salutare nuovi mondi mai visti e sfruttare il vantaggio che una presunta superiorità culturale potrebbe assicurargli. Egli parte solo per avvicinarsi a loro, affettuosamente e dolorosamente, prima che siano scomparsi. Per scrivere i loro nomi sull’acqua: forse su quella stessa onda levata che fra poco avrà travolto i suoi soggetti. Per dirci che talvolta le cose inattingibili ci sono assai più vicine di quelle vicine, impregnate come sono di una familiarità basata sul contatto e del respiro di un’attenta e ricercata meditazione sulla pittura.
Gian Paolo Barbieri nasce nel 1938 in via Mazzini, nel centro di Milano, in una famiglia di grossisti di tessuti. Proprio nel grande magazzino di tessuti di suo padre acquisisce delle competenze che gli saranno utili nel suo fare fotografia di moda. Come per altri grandi, Armani per esempio, è il teatro a esercitare un potente fascino sulla fantasia, tanto da farlo iscrivere alla scuola di recitazione del Teatro Filodrammatici, tra il 1956 e il 1957. In seguito gli viene affidata una piccola parte non parlata in ”Medea” di Luchino Visconti con Sarah Ferrati e Memo Benassi.
Il cinema americano degli anni ’50 costituisce una base importante per lui: i drammi di Tennessee Williams o attori come James Dean, Marlon Brando o ancora Lana Turner e Ava Gardner, donne bellissime illuminate da una luce tutta particolare che le rendeva ancora più affascinanti. Il cinema gli da il senso del movimento e l’occasione di portare la moda italiana in esterno, dandole un’anima diversa.
Ha l’occasione di andare a Roma, in puro clima “dolce vita”, dove per mantenersi fotografa le starlette emergenti, ma non per molto. Si trasferisce a Parigi dove incontra il fotografo di “Harper’s Bazaar” Tom Kublin a cui fa da assistente per un periodo breve ma intenso.
Nel 1964 apre uno studio a Milano e comincia a lavorare nella moda, facendo campionari. Riesce a farsi pubblicare dei servizi fotografici, su “Novità”, la rivista che in seguito, nel 1966, diventerà “Vogue Italia”. Da questo momento comincia a collaborare con la Condé Nast, pubblicando anche su “Vogue Paris” dal 1973. Nel 1968 vince il Premio Biancamano come migliore fotografo italiano e il settimanale “Stern” lo inserisce tra i quattordici migliori fotografi di moda nel panorama internazionale.
Realizza campagne pubblicitarie per marchi importanti come: Elizabeth Arden, Chanel, Dolce & Gabbana, Mikimoto e tanti altri, in cui riesce a trasformare ciò che ritrae in immagini ideali, con richiami continui al cinema anni Trenta e Quaranta. Fondamentale tappa del suo iter è l’esperienza con Vogue Italia e con i più grandi stilisti come Valentino, Versace, Ferré, Armani di cui ha interpretato le creazioni negli anni ’80, in cui il prêt-à-porter italiano e il Made in Italy conquistano il mondo.
Dagli anni ’80 compie diversi viaggi in paradisi tropicali come Tahiti, Madagascar, Seychelles e Polinesia, da cui nascono dei meravigliosi libri fotografici in cui racconta luoghi e realtà lontane con il suo impeccabile gusto. Nonostante le foto siano in esterno e siano spesso immediate o fugaci, sono così “perfette” da sembrare fatte in studio, riesce a unire la spontaneità di quella gente e di quei luoghi a un’eleganza e uno stile che lo contraddistinguono sempre. È riuscito a intrecciare la spontaneità della fotografia etnografica al glamour della fotografia di moda. Queste foto sono state scelte da David Bailey per essere esposte all’interno del Victoria and Albert Museum di Londra e nel Kunsforum di Vienna, considerate, a tutti gli effetti, opere d’arte. Le sue fotografie sono esposte in diversi Musei, tra i quali la National Portrait Gallery di Londra e il Multimedia Art Museum di Mosca.